28 febbraio 2012

La barchetta

Chi ha guardato il cielo in questi giorni ha potuto ammirare il nostro satellite sorridere o galleggiare, e sognare ad occhi aperti nello spazio profondo. Magari lasciarsi cullare dai puntini di sospensione di Venere e Giove, poco sotto la luna, luminosi interrogativi del cielo terso e quasi nero… 


Sono uscito a vedere e ho fatto questa foto al volo: 


La direttrice Sole-Luna interseca l’orizzonte a 90 gradi circa. Una posizione sicuramente rara e inusuale alle nostre latitudini, dal momento che vediamo solitamente la falce lunare sempre in posizione verticale, rispettivamente verso destra o verso sinistra a seconda della sua fase. Questo fenomeno invece è molto più comune a latitudini più meridionali, verso la fascia tropicale. 


Venere e Giove continueranno da soli il loro cammino per tutto il mese di marzo, rimanendo ben visibili ogni sera. Ma per rivedere la luna a barchetta dovremo attendere fino al 2023, e anche allora non sarà un sorriso così perfetto come quello di oggi.


L’arco di luce orizzontale è come il ghigno stretto e beffardo dello Stregatto, nel firmamento di Alice nel Paese delle meraviglie...




Chissà che un giorno non incontri una vera gatta, come la mia per esempio:



27 febbraio 2012

24 febbraio 2012

Il cuore brucia

Chi corre non ingrassa, neppure mangiando assai. Il vero podista inghiotte circa 50 km settimanali, e questo lo alleggerisce strada facendo delle calorie che imbocca per via del classico apparato digerente. Ci pensa il suo cuore, vero sentimentale ordigno da disinnescare prima di oltrepassare le soglie del tormento dantesco…

In pratica, uno studio italiano dell’Università Politecnica delle Marche, pubblicato sul Journal of Clinical Investigation, dice più o meno così:
Il cuore è una "centrale energetica" al centro del corpo che può far dimagrire. Il muscolo cardiaco, infatti, riesce a bruciare grassi; lo fa per battere e pompare sangue, e nel funzionare produce ormoni.

La ricerca ha scoperto che il cuore, attraverso due particolari peptidi cardiaci - prodotti e secreti sia a livello atriale che ventricolare - stimola la lipolisi e la termogenesi nelle cellule del tessuto adiposo.

È noto che il cuore produca ormoni, ad esempio favorendo l’eliminazione del sale che consumiamo con la dieta, contribuendo a tenere sotto controllo la pressione. Quello che non era noto è che questi ormoni agiscono sul tessuto adiposo facendo bruciare il grasso per produrre calore: il cuore partecipa dunque al metabolismo, ed è una novità importante.

Cosa fare per ottenere questo effetto? La risposta è: aumentare il metabolismo basale.

Il metabolismo basale è il dispendio energetico dell’organismo a riposo, e comprende l'energia necessaria per le funzioni metaboliche vitali (respirazione, circolazione sanguigna, digestione, attività del sistema nervoso, ecc.). Rappresenta circa il 45-75% del dispendio energetico totale nella giornata, ed è influenzato da fattori individuali, stati patologici, assunzione di farmaci, regime alimentare, ed attività sportiva.

Per “tarare” naturalmente il metabolismo basale a livelli più alti si deve, in ultima analisi, fare attività fisica, in particolare nuoto e corsa, o qualsiasi altra attività sportiva.

23 febbraio 2012

I neutrini

E così riprendo a correre, finalmente, dopo la pausa freezer e quella delle fibre di un polpaccio macilento, forse, o solo deboluccio di costituzione…

La ripresa non è cauta: l’istinto, come nervo scoperto, mi fa saltare senza progressione le tappe tra il fango residuo e le tante deiezioni di cani, ostacoli sul suolo pubblico. Ringrazio i padroni privi di palette, perché a loro devo la mia ritrovata velocità.

Certo potrei migliorare di tanto, e sono felice di poterlo pensare abbandonandomi a quelle sequenze di geni campani che inspiegabilmente si attivano. Li aspiro, napoletani, dagli albumi zuccherini che gonfiavano le torte della mamma di Tonino, figlio dell’immigrazione degli anni ’60. Memoria indelebile masticata per anni, gusto e consistenza che ora viaggiano più veloci della luce del tramonto, nei tunnel della corteccia frontale o laterale, o nel baule che trascino appresso. Pensieri immateriali che la metafisica accoglie nella sua mensa per i poveri della filosofia…

Però la Fisica non si tocca, ed è notizia fresca che:
I neutrini non sono più veloci della luce. E’ stato un falso allarme. La velocità della luce rimane una costante della fisica.

Lo scrive il numero in uscita della rivista «Science». L’errore non stava della relatività di Einstein ma in una banale connessione in fibra ottica tra il ricevitore GPS e il computer usato per calcolare il tempo impiegato dai neutrini a viaggiare dal Cern di Ginevra al Laboratorio sotterraneo del Gran Sasso.

Era il 23 settembre dell’anno scorso quando l’équipe dell’esperimento «Opera» diretto da Antonio Ereditato diede l’annuncio bomba. I neutrini prodotti a Ginevra, dopo aver attraversato la crosta terrestre sotto le Alpi e gli Appennini fino al Gran Sasso per 720 chilometri, sembravano guadagnare 60 miliardesimi di secondo rispetto alla velocità della luce.

I fisici di «Opera» furono i primi a stupirsi e decisero di comunicare il loro sconcertante risultato proprio per chiedere ai colleghi americani e giapponesi, che hanno esperimenti simili, di verificare come stessero le cose.

Subito dopo l’équipe di «Opera» si sono messi a controllare meglio il proprio esperimento. I fasci di neutrini erano un po’ troppo lunghi, non si poteva sapere se si catturava un neutrino della testa o uno della coda dei fasci: li hanno accorciati perché la misura fosse più precisa. Poi con i satelliti GPS hanno meticolosamente controllato la distanza Cern-Gran Sasso, riducendo l’incertezza a una ventina di centimetri. Il sospetto era che ci fosse un errore sistematico, perché la differenza di tempo saltava fuori in modo costante su 15 mila neutrini osservati. In effetti era così: l’errore sistematico si annidava in un pezzetto di fibra ottica, dove la luce non viaggia alla velocità della luce ma più lentamente, sia perché non è nel vuoto sia perché dentro la fibra viene continuamente rifratta. Era quel rallentamento a far sembrare i neutrini più veloci.

L’annuncio del 23 settembre ebbe un risvolto divertente. L’allora ministro dell’Istruzione e Ricerca Mariastella Gelmini fu anche lei più veloce della luce nel rivendicare al proprio ministero il merito di un fantomatico tunnel nel quale i neutrini disputerebbero le loro corse travolgenti da Ginevra all’Abruzzo. Non sapevano, il ministro e il suo ufficio stampa, che per i neutrini la materia è perfettamente trasparente perché sono particelle a interazione debolissima. E neppure che non esistono al mondo tunnel così lunghi, il che è geografia, non sofisticata fisica delle particelle.

Qualche riflessione dovranno fare anche gli scienziati. E’ vero, si impara sbagliando. Ma è anche vero che i media oggi hanno i nervi scoperti e ciò modifica il vecchio modo di procedere delle riviste scientifiche, dei controlli tra pari, degli esperimenti indipendenti che si verificano vicendevolmente.

20 febbraio 2012

Il Carnevale

C’è confusione tra la festa qualunque, il paese, e il Carnevale di chiunque. 

Il fruscio di colori qui attorno si mescola nell’aria e si spalma ondeggiando sulle maschere e i costumi, sui capelli porosi e su quel cappello da fata Morgana…

Gli occhi si perdono in antichi mestieri. Le vie e la piazza ricordano la cardatura della lana, la spannocchiatura del mais, la pulizia di lenzuola con acqua calda e cenere, la tipografia. Maschere di generazioni meccaniche travolte da questo fruscio riappaiono. La memoria di quell’Alpino ha riacceso negli occhi il focolare della nonna, una stufa piena di ceppi rossi come gli stop a led della nuova Golf… Una piacevole frenata, il vin brulè o la cioccolata. 

Si vendono i ricordi tra le bocche aperte e quelle chiuse di chi ascolta. Sono frammenti incollati dallo stesso fruscio di fondo che s’insinua dappertutto e isola bene, più vicini, i ricordi ancora caldi. Qualche coriandolo si stampa sulle pareti dei sorrisi e accenna una crepa di gioventù avanzata. Buttata lì dalla mano del figlio o dell’amico che raccoglie le tessere bagnate di ghiaccio (color terra), anche la vita riappare, e scompare; vittima della gravità altalenante della follia (di un equilibrio non proprio da Vasco). 

Si comprano cose dell’altro mondo, tanto per mascherare il tempo da Carnevale. Il carro delle arance è da un’altra parte, ma la battaglia è anche qui a mietere vittime umane, cadute insieme alla loro libertà… 


16 febbraio 2012

La patata

Finalmente il cielo si è trasformato ed ha cambiato le nostre facce. I colori sono usciti a correre sopra le teste, sulla tavolozza ancora ricurva per l’umidità.

L’inverno e la pestilenza di questo gelo si sono placati giusto il tempo di sognare nuovi raccolti più felici. L’immaginazione è ripartita da lì, dai volti sfumati che la giornata mi ha incollato nella retina emotiva e che ora riemergono davanti all’azzurro maculato che sfreccia poco sopra il mio cappellino, e la neve quasi sciolta del parco.

Riconosco i nasi a patata e le fronti a botte. I capelli lucidi e quelli ricci dei super tecnici folgorati da troppa informatica. Le nuvole sono sempre state il mio pongo. Sempre un passo indietro, la mia coscienza. E la scienza due.

Ma questa sera a farla da padrone è l’enorme naso a patata con narici scure, visto dalla pista innevata, in evoluzione plastica verso uno starnuto, forse, all’orizzonte (giallastro e striato di rosso sangue). Forse il naso di un malato, che certo non annusa felice l’aria di primavera…

Ed ecco che m’assale l’articolo di Guido Ceronetti, sulla stampa di sabato scorso, a proposito di patate che hanno cambiato la visione della storia…

“E io ripenso all’Irlanda del 1822 e alla terribile morìa della Patata che ebbe per conseguenza una gigantesca trasformazione dell’antropologia e della storia nordamericana.

In tutto il Nord Europa dei poveri, in quegli anni, la Patata, portata dal Sudamerica dagli spagnoli, era l’alimento principale. Riempiva la pancia, ma non riparava le inevitabili carenze e il suo contenuto di solanina la rendeva, in grandi quantità, tossica. Come in Sudamerica, anche le patate europee erano tuberi mostruosi, grandi come palloni da gioco; gli Irlandesi, quasi tutti poverissimi, le avevano adottate con favore di disperazione. Ma dopo un inverno simile a quello che stiamo sperimentando in Italia, la patata irlandese fu colpita da una misteriosa pestilenza. Una sera il signor O’Connor, contadino dei dintorni di Dublino, tornò a casa sconvolto, e annunciò ai famigliari che nei loro campi di patate da un giorno all’altro tutto il raccolto era perduto… Tutta la famiglia O’Connor e innumerevoli altre furono sterminate dalla denutrizione…

Venti anni dopo, la pandemia ancora imperversa, e dopo un milione di morti per fame e indebolimento cronico il popolo superstite decide di trasferirsi negli Stati Uniti, abbandonando per sempre l’isola di Smeraldo dai campi appestati.

E in America, tutti quei contadini voltano le spalle alle campagne e alle piantagioni, rassegnati al pane americano di mais, e si buttano a trafficare alcolici, si fanno agguerriti quartieri propri nelle città, si arricchiscono con l’industria, puntano alle amministrazioni, diventano la più forte presenza etnica di New York. Di origine irlandese è la stirpe dei Kennedy, cattolici, senza scrupoli, ricchissimi e decisi a portare uno di loro alla Casa Bianca.

Anche il padrone dei grandi macelli di Chicago è un discendente del contadino che tra i primi aveva sofferto della morìa della patata, tra la grande Depressione e il proibizionismo, Patrick O’Connor. E vende whisky agli indiani, come molte altre famiglie irlandesi. Insieme ai familiari parla la lingua celtica e non mangia patate, per rifiuto dell’inglese e orrore della pestilenza.

E così, l’emigrazione patatista del XIX secolo ha cambiato la faccia dell’America…

14 febbraio 2012

Il vento

Lo sento nella trachea se solo ci penso, al vento. Quando pronuncio, la prima vocale si schiaccia e-comprime l'addome nel centro; risacca sopra l’intestino prima di unire al respiro il suono o-stinato dell'ultima vocale, spartito banale.

Rimango sempre un po’ ostaggio delle ultime vocali, mentre leggo. Tagliano l’immagine, si portano via la parola. Una bora, ad est della scrittura, che dall’inconscio scompagina la frase fino all’ultimo rigagnolo d’inchiostro, e poi solleva il foglio e ondeggia con orgoglio. Sul nuovo, capitolo.

E mi chiedo se non valga la pena infilare la tuta e parlarci col vento, partecipare in corsa al suo gelido dipinto. Firmare un giorno speciale, fermarsi un istante, e svoltare.

Su La Stampa di ieri, il narratore Giuseppe Longo scrive più o meno così sulla bora: 
«Io ho con la bora un rapporto difficile, anche se vivo a Trieste da quand'ero piccolo. Dicono che i forestieri alla bora non si abituano mai e prima o poi alcuni devono tornarsene nei luoghi d'origine. Certo anch'io starei meglio lontano dalla bora: comincio a sentirla quando ancora non è arrivata, di solito la sera prima. 

E poi arriva: un tremitare urgente, un'agitazione secca e nervosa dell'aria; da remoti altipiani nasce il soffio della terra, scende dai contrafforti del Carso, ossa calcinose dei continenti, scuote i boschi, schiaffeggia le distese del golfo, forza i camini, le colombaie, i lucernari, fischia sui davanzali: la città muta aspetto, esce limpida e scintillante dalla foschia, affronta la bora a viso aperto, cristallina e sonora. 

La bora ti scava dentro, ti fa impazzire. Nelle notti di bora, l’appartamento dove vivo, esposto a tutte le raffiche come una banderuola, non mi dà nessun affidamento: fors'anche per essere una soffitta e non un vero e proprio appartamento, è il luogo di tutti i gemiti e di tutte le vibrazioni, è una cassa armonica, un amplificatore, una camera d'ascolto: insomma, quando soffia la bora qui è un inferno e vengo colto da un nervosismo e da una sovreccitazione insopportabili; dentro mi si rivolta tutto un fondo limaccioso di dolori e di ricordi. È una vera e propria tortura dell'anima. 

Sono convinto che c'è in questo vento impetuoso e brutale una forza negativa, un'influenza che si manifesta nella mente, oltre che nel corpo. Quasi ogni famiglia di Trieste ha un componente matto o almeno squilibrato o almeno strambo. Basta andare nella zona di via Giulia e osservare i passanti per vedere che guasti può fare alla psiche umana un vento come la bora che insiste da secoli se non da millenni su questa zona, levigando alberi e rocce e picchiando sulla nuca della gente, tanto che molti presentano un occipitale a filo del collo, scarso o addirittura privo di capelli, come per una badilata…»

13 febbraio 2012

La passeggiata

Sono salito a vedere i tetti di questo paese; mascherati da Pulcinella, trainati dai vapori dei camini, ondeggiavano dietro ai respiri. I tetti, dall’alto, possono riassumere dieci o cento vite in un colpo d’occhio di pochi gradi. Sotto zero, poi, non si distingue che qualche molecola di fumo fuggita dalla neve. Brucia il tempo ancora verde, là dove si alza l’albero grigio; e qui, sotto un cappello di lana, nel mio rifugio. 

Anche Gadda osservava i tetti e scriveva, a proposito di Milano, a metà del Novecento, così:
«Il fatto sta che i tetti palesano inclinazioni diverse, ma tutte pessime; poi dislivelli e salti quanto mai leggiadretti; poi fratture e interruzioni e gobbe e foruncoli d’ogni maniera. Vi si aggrappano lucernari e abbaini, vi si ergono birilli rossicci, i camini della miseria. C’è di tutto, sui tetti. Tubi di sfiato, rugginosi come le scarpe della Befana, serbatoi di lamiera o di cemento, torricole che paiono stie per i polli (con qualche piccionaia autentica e assai mèmore e cara), gabbie, antenne, reticoli, fili a vento, piccioni, gatti e ratti.»
Lo stile gaddiano, quando non nitrisce oltre misura, mi è congeniale. Lo sento vivo, con affinità animale…

Con un salto nell’estate, per riscaldarmi due minuti e prima d’immaginare la vita di questa sera, trascrivo una mia vecchia poesia in tema ascensionale, laterale di pensiero come un volo... 

Il bosco dei tetti 

Da qui a fondovalle
l’incastro dei tetti galleggia
in case abitate
come famiglie d’anatre lontane
dai becchi mattone,
da riva.


Salendo oltre vedo formiche su pance di mucche
in mutua simbiosi di corpi
che sfumano
in escrezioni di foglie d’insonnia.

Oltre ancora
il senso è febbrile punteggiatura

di parassita
di macula solitaria
di esploratore.

Il bosco dei tetti è sparito.

Sotto il mio dito
rimane una nuvola
scura, e l’unghia
che la ferisce,
dura…

11 febbraio 2012

La mèta

Quando ritrovo sopra il mento
le parole da strizzare
con dolcezza, quel tanto che basta
per asciugarle da te
tutto si ferma, credo
per un inchino

e un campanello si riprende
quel mistero, e quel destino
che da tempo ci riunisce
metà in basso
metà in alto (una mascella)
ad abitare l’universo
la gravità e
il tempo inverso.

9 febbraio 2012

Il maccarone

Nel  manifesto della Cucina Futurista (Gazzetta del Popolo,  agosto 1930, Torino) si legge che…

"Noi Futuristi crediamo anzitutto necessaria l'abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana...”

"Maccarone... m'hai provocato e io te distruggo, maccarone! Io me te magno!". (Alberto Sordi, Un Americano a Roma)
Il manifesto futurista prosegue più o meno così:
“Forse gioveranno agli inglesi lo stoccafisso, il roast-beef e il budino, agli olandesi la carne cotta col formaggio, ai tedeschi il sauer-kraut, il lardone affumicato e il cotechino; ma agli italiani la pastasciutta non giova; contrasta con lo spirito vivace e l'anima appassionata, generosa, intuitiva dei napoletani; nel mangiarla, essi sviluppano il tipico scetticismo ironico e sentimentale che tronca spesso il loro entusiasmo. A differenza del pane e del riso, infatti, la pastasciutta è un alimento che si ingozza, non si mastica.

Il pranzo perfetto esige un'armonia originale della tavola; cristalleria, vasellame, addobbi, coi sapori e colori delle vivande. Esige una raffinata plasticità…

Il Carneplastico, per esempio, è interpretazione sintetica dei paesaggi italiani. E’ composto da una grande polpetta cilindrica di carne di vitello arrostita ripiena di undici qualità diverse di verdure cotte. Questo cilindro, disposto verticalmente nel centro del piatto, è coronato da uno spessore di miele e sostenuto alla base da un anello di salsiccia che poggia su tre sfere dorate di carne di pollo. Ringraziamo il pittore futurista Luigi Colombo, in arte Fillìa…

Oppure il complesso plastico Equatore + Polo Nord, composto da un mare equatoriale di tuorli rossi d'uova all'ostrica con pepe, sale e limone. Nel centro emerge un cono di chiaro d'uovo montato e solidificato, pieno di spicchi d'arancio come succose sezioni di sole. La cima del cono è poi tempestata di pezzi di tartufo nero tagliati in forma di aeroplani bruni alla conquista dello zenit. Ringraziamo il pittore furista Enrico Prampolini…" 
A furia di provocazioni, le liti e le guerre...

Il futuro si è manifestato meno creativo, ma più buono, in cucina. Per fortuna, i
l "maccarone" condito riscalda ancora l'anima, la mia e quella della mensa aziendale...


I sogni

I sogni sono sfide impegnative, creazioni ed enigmi da risolvere...
"I sogni sono la letteratura del sonno"...
Buona lettura, Cocteau.



8 febbraio 2012

Il barone rosso



Snoopy immagina d’essere il tenente canadese Roy Brown, il pilota alleato che riuscì ad abbattere Manfred von Richthofen, detto il Barone rosso.

La mia gatta, invece, immagina d’essere Snoopy, e sul davanzale riscaldato della finestra, dietro i vetri, è sempre pronta a lanciarsi sulle mosche bianche, pattuglie nemiche di fiocchi di neve…

7 febbraio 2012

L’inverno scontato

Anche gli animali in letargo, il tasso
e il porcospino più largo della tana dei sogni
dell'inverno sapevano
che a rimandare gli anni di gelo
gli scambi ed i freni, i treni
- di avvisi spargisale e spazzaneve -
si sarebbero offesi nei tagli,
saldati con il sangue rappreso.

La generazione dei coltelli
della finanza e dei poker attesi
dall’ultima mano operaia…
ha fischiato d’allarme.
E il gusto del maltempo
s'è insinuato nella testa intrappolata 

dei giovani, ancor prima
di nascere...


5 febbraio 2012

Cavallo Pazzo

Sotto la finestra ti vedo correre e penso... 

Hoka Hey, giovane sportivo! Cavallo Pazzo dei Lakota che rincorri la prateria sopra questo ghiaccio di piè monte. A nulla serve coprire i tuoi riccetti con quel cappellino da soldato incurvato sulla fronte… Nella trincea si marcano manciate di gradi sotto zero! E sopra il ponte, il legno s’è spezzato in troppi punti per farci transitare pensieri di valore. Non è in gioco la libertà o l’onore. Non è ancora tempo di volare a bassa quota e calpestare le paure più vicine, sempre a un battito dal cuore più lontane...

Hoka Hey, giovane sportivo! E’ comunque un buon giorno per morire… 

Dal racconto della Danza del Sole dei Lakota:
“Un tempo il nostro popolo si trovava accampato in un bel posto, e gli anziani erano seduti in consiglio quando si accorsero che uno dei nostri uomini, Kablaya, aveva legato la sua coperta intorno alla vita e stava danzando tutto solo con le mani sollevate verso i cieli. Gli anziani credettero che fosse impazzito, perciò mandarono qualcuno a scoprire di cosa si trattasse; ma anche costui legò improvvisamente la propria coperta intorno alla vita e prese a danzare con Kablaya. Gli anziani pensarono che ciò fosse molto strano, e così andarono tutti a vedere di cosa si trattasse.
Quindi Kablaya spiegò loro: «Molto tempo fa Wakan Tanka ci disse come pregare con la Sacra Pipa, ma ora ci siamo rilassati troppo nelle nostre preghiere e la nostra gente sta perdendo la propria forza. Ma mi è appena stato mostrato, in visione, un nuovo modo di pregare; in questo modo Wakan Tanka ci ha mandato un aiuto»…
Quindi Kablaya parlò agli uomini, dicendo: «Questa sarà la nostra Danza del Sole, dobbiamo prepararla! Questa danza sarà un'offerta dei nostri corpi e delle nostre anime a Wakan Tanka, e sarà molto wakan (spirituale). Tutti i nostri anziani e i nostri Uomini Sacri dovranno riunirsi; un grande tepee dovrà essere innalzato e si dovrà disporre salvia al suo interno, su tutta la superficie».
«Dovrete avere una buona Pipa, e anche queste cose: tabacco, una pelle di vitello di bisonte conciata, corteccia interna di salice rosso essiccata, pelli di lepre, erba dolce, piume d'aquila, un coltello d'osso, pittura di terra rossa e azzurra, un'ascia di selce, sterco di bisonte, pelle non conciata, un teschio di bisonte, penne della coda dell'aquila, una borsa di pelle grezza e fischietti d'osso dell'Aquila Chiazzata».
«Dopodiché Kablaya chiese a tutti coloro che sapevano cantare di andare da lui quella sera, così che potesse insegnare loro i canti sacri; disse che avrebbero dovuto portare un grosso tamburo di pelle di bisonte grezza, con delle bacchette molto resistenti, ricoperte all'estremità di pelle di bisonte con il pelo verso l'esterno! E suonare, cantare e danzare»




Il carro del sole

Il gelo ha cucinato per me questa sera
il disco del sole, nel fondo a padella del cielo
giallino e rigato sul vetro (col fiato).
Sfuma la neve sul davanzale
e non basta a sfamare che la mia parte inferiore
seduta, stufata d’attesa.
Quanto pesa quest’ora di vita
sul carro a danzare sopra le nuvole
come pazzi cavalli di mare…


4 febbraio 2012

Il sentiero

A volte correndo si oltrepassa la Via. A volte, invece, si calpesta un destino dimenticato. Nel proprio sentiero, è fortunato chi riconosce lo sguardo del cuore: prima o poi trova la casa, e il suo fiore… 


Il Capo indiano a Jonathan, cresciuto come un figlio… 
“Non dimenticare mai le infinite stelle dell’universo, l’erba che cresce dalla terra… La luce della Luna sarà per te lo spirito di tuo padre e il calore del Sole sarà la tua forza…” 
Jonathan chiede al grande Capo indiano: “dove porta questo sentiero?” E lui: “da dove siamo a dove dovremmo essere; nessuno conosce il suo destino fino a quando non vede la Via.” “E qual è la Via, Piccolo Orso?” “La Via?... non c’è nessuna Via; è il nostro cammino a crearla... Nessuno può rubare il Paradiso perché un uomo, anche il più abile fra tutti, può sottrarre agli altri solo quello che può raggiungere. E il Paradiso, Piccolo Orso, è un posto che nessuno può rubare. E’ qui, è dentro il tuo cuore che devi trovare il coraggio di diventare quello che sei destinato ad essere!” 
Dialogo tratto dal film: “Jonathan degli Orsi”, diretto e interpretato da Franco Nero.

1 febbraio 2012

La linea sottile

Scendo, salgo e riparto.
Una linea bianca mi separa sull’asfalto.
E’ questo vivere ghiacciato che si ostina a slittare.
Non ha aderenza, è un ritornare
nelle ruote, senza catene,
all’alba dello stesso piazzale. 

Dove qualcuno ha fatto un pupazzo di neve 
e gli ha messo il sorriso nel naso
io guardo, e mi vedo sorpreso
a sognare
l’inverno caduto ai miei piedi.