Pensieri allenanti

Apache

Chiudo l’auto e muovo verso la cancellata d’ingresso del parco, la mia riserva d’ossigeno. Lo start del nuovo Forrunner 210 inizia a registrare ciò che accade, anche questa sera.

La luce è già artificiale. I chiari si alternano agli scuri e la strada appare un bel carboncino, vicino, e una macchia confusa, lontano. All’interno dell’anello di sterrato, le piante. Hanno segmenti di nero da brivido e ramificazioni che s’infilano nelle finestre della memoria. Oscure presenze s’avvicinano e poi scompaiono dietro un curvo lampione spossato dal lungo respiro dei vapori luminosi. Qualche foglia tenace non si stacca dalla testa del faro, e appare un indiano. Una scena da macchiaioli.

Nei chiaroscuri vedo pennuti in cima ad altri lampioni. E altri indiani fatti di foglie scenderanno con la pioggia sul fango per danzare tra la terra e le scarpe o da qualche parte in un vaso di fiori. Poi gli occhi si chiudono nel rettilineo di fuga e le palpebre sudate conquistano il mio Fort Apache, in ritirata. Nuove luci appaiono dietro le dune pietrose. Sono quelle di un’ambulanza. Le inseguo con le orecchie tese. Lasciano una scia rossa, una scia blu; lasciano un mucchio di cose fuori posto e poi non spiegano, corrono e basta. Ma io sono più veloce e sorpasso i pensieri. M’infilo nella cruna d’un salice sfogliato e sbuco nel giro successivo.

Tutto è molto più scuro, solo a pochi passi da me...


Maluma


Corro a palla, rimbalzo maluccio, ma proseguo. Devo prendere le distanze dal malumore. Immagino una spiaggia ed il mare. Il malumare si solleva con il suo kite...

Leggo nel cielo la parola "maluma". Sembra il nome di un rio o quello di un’isola; sembra il paradiso perduto, ma è solo un qualunque regno della fantasia. Potrebbe anche essere uno stagno incantato dove le rane si moltiplicano rigonfie nelle sere d’estate a gracidare.

Maluma salta all’infinito e oltrepassa il senso della parola: è una sensazione in movimento, un'atmosfera di sudore che condensa e rimbalza dalla fronte sulla spalla... Un giochetto della mente che barcolla...

Nel primo Novecento qualcuno inventò due parole per gioco: “maluma” e “takete” per dimostrare come si può generare espressività e immagini autonome a partire dalla fonetica della parola. Il richiamo a immagini tonde per maluma e a immagini spigolose per takete ha valenze comunicative e sociali. Pubblicitarie, relazionali, simboliche.

Maluma ora sarà il mio igloo, una bandiera lontana dalle basi artiche internazionali della corsa estrema. Qui sarò protetto dalle meditazioni insufficienti e curato dalle sensazioni eccessive: un allenamento alla sopravvivenza di me stesso...


Ánemos es

Dal libro di Pietro Cristini ho iniziato a raccogliere una castagna qua e là. Dentro un riccio, questo pensiero di Fulvio Massini, trainer Fidal di professione: “Allenati ad ascoltarti. Respira profondo e lasciati ispirare”.

E questa sera ho provato e riprovato, nei giri del parco all’imbrunire, a prestare orecchio a quello che l’essere corsa (e corsaro) avrebbe potuto dirmi in qualche modo o sussurrarmi, con un po’ di fiatone.

Nessuna parola, bene. Solo sequenze di respiri e di odori intrecciati a partire dalle radici dei polmoni che entrano nel naso e poi spingono sotto il cuoio dei capelli, trafilate nel bronzo delle rughe...

“Respirodori” dunque, in amalgama tra loro, che m’attraversano come venti di prateria, nel far west della mente un po’ stanca di occidente. Spazzano liberamente i pensieri, s’intubano in canyon e poi s’addensano in ombre rosa a cui non resta che un soffio di vita da restituire. Sono folate di respiri e di odori consumati, stremati e lasciati come rifiuti nella terra dell’ascolto interiore.

Sequenze di arrivi e di partenze, di scali emotivi primitivi al terminal mental-bolico: “i signori Rossi e Bianchi (sangue e ossigeno) sono pregati di accomodarsi all’imbarco, salire e allacciare le cinture di sicurezza…”. Saranno catapultati con tutto il resto dell’equipaggio nel cielo della psiche, nel mezzo della rotta di volo...

E con il corpo, indissolubile, l’anima vola nella corsa. Ora la sento. In greco è vento (ánemos), il soffio ed il respiro (psyché), il significato di anima. La inspiro senza sapere bene cosa sia, perché ha un buon odore di passione.


La Nausée


E’ così: in ogni movimento c’è un segreto da scoprire. E tanti movimenti sono tanti segreti. E tanti segreti formano l’essere (umano).

Reti di molle lavorano intorno alle ossa ad ogni passo e costruiscono “per sé“ la coscienza fisica, ad esempio dei quadricipiti e dei bicipiti femorali. E non è lavoro “in sé” semplice, per la coscienza del “per sé” che deve gestire le relazioni con fibre più sensibili, nervature e linfaticità, tendiniti e stiramenti, ma soprattutto che deve gestire fibre di pensiero…

Il progetto fondamentale è quello di conciliare “per sé” e “in sé”, di “essere” veramente, senza perderne coscienza, il verme dentro la mela.

Infatti, nella tensione incosciente del passo può aprirsi il movimento dell’Oltre, dell’Arto che ruota troppo e sloga il “divenire” in un “ritornare” al sofferto cammino senza slancio, alla passeggiata del vecchietto.

Nel movimento delle parole c’è il segreto dell’esistenzialismo: Heidegger, Jaspers e Sartre sono déi di questa filosofia: i loro passi trascendono le passioni elementari e si susseguono a formare fitte reti di senso, a volte angosciante, con linguaggio astratto, sottile e per molti inconsistente…

Nelle parole in movimento c’è il segreto dell’esserpodismo: i maestri sono in mezzo alla strada. I loro passi sono allunghi, ripetute, ritmi sostenuti: chiavi mentali che fanno tintinnare il mazzo; e ciascuna chiave apre un deposito diverso di vissuto, di coscienza, di memoria da confrontare. Elenchi, numeri e parole di conforto o di sconforto che saltano in mezzo a sudori e ricordi spesso in riserva d’energia…

Per chi conosce Sartre: “Some of these days” è un disco che si ripete anche al Ritrovo dei Podisti, una possibilità di accettarsi e di ascoltare, alla Nausea, il godimento del movimento intorno alla puntina…

Per chi non conosce Sartre: “Vivere, è passato tanto tempo… è come un comandamento… senza perdersi d’animo mai e combattere e lottare contro tutto contro!...”. Le parole in movimento si trasformano in musica vascolare per chi si allena con rigorosa perseveranza, immaginando cavalli rossi e pensando solo che “domani sarà sempre meglio”!


Il piriforme


Arrivo tardissimo all’appuntamento con gli otto giri programmati al central park, quello del fine settimana. Quasi tutto, compreso l’aria, è già sulla strada del rientro… 
Inizio a correre con il dolore nella coscia, in alto, dove si fanno le punture da seduti. Sembra che nessun altro sia in ritardo, questa sera. Il recinto dei cani s’è già svuotato di padroni e se continuo così lentamente rischio di rimanere chiuso tra questa vegetazione immobile e fantasma.

Al primo giro tutto riposa. Colori, rumori, odori, sputi e pensieri. Al secondo giro tutto s’infiamma, a partire dal muscolo piriforme; ma pyros, fuoco, non c’entra: è pirum, pera, che mi fa cascare, ancora immaturo della corsa; che mi informa e mi sforma ad ogni passo. Dovrei smettere di insistere e lasciar correre altri passi sopra altri sogni…

Al terzo, però, mi accorgo d’essere inseguito da qualcosa. Da qualcuno, spero. Nel dolore della torsione intravvedo una sagoma scura che non sembra saltare, né perdere terreno. Mi tallona. Non mi sorpassa. Mi sprona. Immagino che sia il mio scheletro che insegue a distanza di sicurezza, rischiando la schiena e la colonna. Al quarto giro non guadagno un metro, solo dolore che circonda i fianchi. E quello strano essere mi minaccia come il guardiano del frutteto di Cormac McCarthy…

Nel mare filosofale di questi giri antiorari, solo il dolore naviga il pensiero, e con l’atteggiamento di chi reclama la propria esistenza sopra quella degli altri. Un mondo di male interiore tessuto da una coscienza nervosa e ostinata. L’esistenza di quell’altro “me solo” nel parco in grado di sfidarmi nel profondo non dà scampo all’idea della resa: neppure i più rapidi insetti o i pollini lanciati possono adesso infilarsi sulla via del sorpasso, nella respirazione, nel solipsismo a sonagli. Anzi, nel soliloquio tra necessità e virtù.

Così meditando, dissolvo una parte della sofferenza che si sta impadronendo di me. Mi dissolvo anche, cercando una soluzione al silenzio che mi costringe a sentire la vita. Non posso usare la laringe, e la trachea è una galleria del vento. L’immaginazione, invece, può fare domande ai muscoli glutei, al quadrato dei lombi, al rotatore profondo dell’anca: tutti gridano sciatica! Sciaticaaaa! Battono i piedi e sbavano dalla rabbia per l’ultimo giro che non finisce mai…

Giunto al sacro-iliaco mi fermo e mi faccio sorpassare. Sto in piedi per miracolo. L’occhio mi scruta e mi attraversa senza ostacolo. Mi sembra quello d’un folle, come nel thriller inglese. Poi mi siedo e lo saluto da distante, come un fratello siamese…

Più tardi inseguirò la nimesulide, e spero di non averne per un mese!


Il recupero

A volte i battiti rallentano e si fanno passare da altri muscoli…

L’oblio
Le molecole organiche ringraziano sempre dopo una corsa: si compattano animate. Le equivalenti inorganiche, invece, si lamentano per quello strano oblio che sopraggiunge a smuovere pezzi di sé dai fondi della memoria, con ansie e problemi al seguito.

E’ un po’ come se l’arcobaleno sfumasse di tempesta certi spettri di colore, mischiandoli con la pioggia: chiazze d’inconscio si allargano sull’arco di quiete del podista e lo espongono al riaffiorare torbido di rimossi, lapsus e distrazioni. Almeno a me succede così…

Il recupero
All’oblio segue il recupero, distensivo ed es-tensivo: entra nel corpo e nello spirito per saldare i pezzi riemersi di esistenza, percezioni e fratture, e per viverci con forza ignota e incontrollabile.

Il recupero è il “distillato della corsa”, digestivo, ma alcolico come il cognac.

L’istinto
Tutto il lavoro nascosto della chimica (dell’oblio e del recupero) è regolato dal genoma del podista proprio per rendere la corsa una “fonte di soddisfazione” istintiva e insondabile, direi “compilata”. La natura profonda, gli antenati della savana, i deserti, le oasi, le tribù nemiche… sono sequenze del nostro film ribonucleico che si attivano nell’inconscio e ci indicano, più o meno bene, il vento da seguire nella quotidiana conquista della nostra Africa…

La quiete dopo una gran corsa è filosofia privata, raccomandata e ripetuta. Di bello non c’è solo che rilassa, ma sconquassa e poi trapianta l’albero della vita in luoghi e amici nuovi, per fare un po’ d’ombra sui volti del proprio ego…

Il fiatone

A volte l’aria dilaga dagli alveoli e respira oltre i polmoni…


A bocca chiusa

Parto sempre a bocca chiusa, comprimendo diaframmi ed espandendomi dalle cavità frontali sino all’intero volume del corpo. E poi scoppio…

Come al solito, i miei primi chilometri di corsa non vanno ad alcun règime: insistono a riempire una mongolfiera di gas infiammabile. Non funziona ancora il fiatone, che si innesca a bocca aperta dopo almeno sei-sette minuti.

E’ un meccanismo antico di accensione del fiato che ho ereditato dall’infanzia, quando al pallone giocavo in apnea per paura di perdere l’aria giusta finché potevo, per poi rantolare tutto il resto del tempo, una volta esploso di sudori.

A bocca aperta

Senza un sano e consapevole fiatone, quello che osservo nel podista di lungo corso, non c’è lunga corsa; non c’é libidine, né tanto meno salvezza. Forse bisogna essere marinai o gabbiani per saper respirare con il vento…

Trovare il fiatone giusto, quindi, è il mio obbiettivo per i prossimi allenamenti.

Il fiato corto m’insegue disgraziatamente negli ultimi chilometri: una compagnia sonora e teatrale di passaggio e improvvisata. Il capocomico è tutta la testa che scuote ad ogni rimbalzo le corde vocali arpeggiate maldestramente dal fiatone e dalla comare lingua, protagoniste di un’operetta immorale.

Perché ci sono gracidi rasposismi di tosse e velenosi sibilari rinitici che compaiono in mezzo al copione, a turbare il fiatone, a consegnargli il massimale dello sforzo come testimone dell’impresa…

Testimone di un ideale di vita a perdi fiato…

Il surreale


I frutti dell’allenamento vanno spremuti e gustati con qualche goccia di spirito…

Gli Arcimboldi
Nell’allenamento di questa sera ho appurato che con il passare dei chilometri la strada si accorcia e la vista si allunga. Prima era un fluire indefinito di pietre e foglie di terra; poi c’è stato il riconoscimento di aree a chiazze e man mano, correndo ossigeno per il corpo, l’alta definizione di tutto il percorso.

In realtà, la visuale si deforma sempre verso il basso, dove vivono le pietre più rotonde e colorate, come nelle due salite prima del campo di calcetto; o nel tratto che costeggia il recinto dei cani dove i ciottoli ringhiano e rispondono ai lamenti degli animali quando scalzano la terra rimbalzando tra loro. Infatti, l’insieme di elementi terreni, una pigna qua, una foglia là, due pietre addossate alla carta di merendina, fanno il sorriso di un quadro di Arcimboldi…

Oggi ne ho visti una decina: erano felici di salutarmi più dei volti sfigurati che correvano incrociandomi due volte a giro. Alla fine credo che darò loro un nome, specialmente nelle curve.

Gli Antenati
Questi esseri immobili emergono espressivi da terra, sperando d’essere scansati dai miei piedi…

La presenza di nasi di pigna come pere; di guance di pietre levigate come albicocche o mele; di capelli di trifogli come grappoli d’uva… mi fanno maturare l’idea che la corsa possa dare vita ad alcune presenze sconosciute e latenti nella psiche, ancora senza nome e senza cura…

Forse sono gli Antenati che nei geni si spremono e come frutti immaginari ci invitano alla raccolta! Centrali di energia psichica alimentate dai sogni ad occhi aperti. Fonti alternative ed ereditarie, pulite come l’incoscienza di crederci….


La misura

Esistono generali di corpo d’armata meno sicuri del tempo di una divisione sbrigata in prossimità del traguardo…

Le manovre
I piani della corsa vengono impostati nelle multiformi memorie elettroniche da polso tattico prima di ogni allenamento o gara. La scelta non è facile: la tecnologia insiste per evolvere la coscienza militare del podista professionale. E ci riesce quasi sempre, anche se mandata ad espletare funzioni organiche e altre moltiplicazioni di sensi, prima o poi.

Alla fine, però, si orientano i piani sul via e si premono anche più tasti insieme ai pensieri laterali; si pressa il controllo degli istanti e dei metri come fossero molecole costitutive di un corpo nuovo in plastica fuga moderna…

A manovra riuscita, si parla con l’orologio amico; a manovra fallita, si rivive la maledizione della prima luna e l’ansia dell’abbandono…

La disciplina
La disciplina accompagna la cura che ripone il podista da qualche parte nella classifica dei tempi. Lo ripaga dello sforzo di pensiero preteso per toccare il muro senza pianti e senza appigli…

Il rispetto del tempo impiegato nella corsa regola la gradazione dell’uomo: ne assegna una razza, dominante o schiava; nessuna libertà e nessun tribunale di giustizia a cui appellarsi…

La disciplina è l’antidoto alla dipendenza dall’idea che sia possibile il salto della casta, in qualunque classifica. Il maestro della disciplina, tuttavia, si diverte indisciplinato con gli inferiori…

L’etica d’ordinanza
L’etica del podista segue l’ordinanza esposta con la classifica: è lo stile di vita espresso nella custodia cautelare: allenarsi senza regredire nel ghetto delle posizioni moralmente insostenibili o delle umiliazioni interiori.

L’etica d’ordinanza nell’auto-detenzione è istruttiva: manda in prescrizione il comando imperativo alle nuove generazioni e ai figli. L’imitazione spontanea sostituirà l’ordinanza, il divertimento (sostituirà) l’impegno morale… E chi ci crede!


Il fiuto


Ho raccolto i flauti delle scie per dare fiato all’odore della strada…

La selezione
Il chilometro di scia, nella corsa, è una pista di atterraggio sensazionale per il mio naso: una base naturale dove sperimentare il decollo verticale di ricordi, fino alle nuvole dell’infanzia…

I metri saltati di tanto polline nel parco assorbono l’olio del perimetro urbano prima di incastrarsi nel vuoto delle radici del naso e riempirlo di essenza. Devono essere metri al secondo per entrare e conficcarsi appiccicosi sulla mucosa in fermento.

Gli olezzi ondeggiano e vanno agganciati e selezionati; poi seguiti e abbandonati al loro destino per tutto l’allenamento possibile. E non c’è stagione che non cucini la sua aria senza orchestra! I triangoli, i fiati e i piatti succulenti divorati nelle mura fuggono e raggiungono le foglie alte delle piante e poi scendono riflessive a ricoprire di note il mio cervello spartito…

A volte la musica non si può suonare perché puzza di cane da far vomitare.

L’inseguimento (run after)

Il passo successivo è nel vuoto. Il rischio che sia in fuga o evaporata amplifica la respirazione della scia: devo rallentare per annusare a bocca chiusa e inseguire, ma l’urto si fa molle e coglie meno le cinture dei profumi delicati.

L’inseguimento degli odori è la sfida animale del podista; forse la più trascurata dalla letteratura, ma quella che preferisco. Forse perché la chiave di lettura è inglese e sconosciuta anche a me che non so usarla.

L’abbandono
Il viaggio con quell’odore non si sopporta ed è per questo che le note scorrono sempre diverse ad ogni respiro. L’essenza si abbandona subito; si lascia sedurre e si ritira o si sputa per sfinimento. Note di frittura, minerali di struttura: milioni di vite galleggianti…

Una appresso all’altra suonano, nell’ipotalamo, il rituale dei tamburi: ed ecco il ritorno alla tribù, e il naso gigante diventa lo stregone del podismo!


Il proiettile

Ho incontrato proiettili di carne sulle ossa e ci ho fatto il muscolo…

La grinta
La grinta non si compra: è polvere da sparo che in religioso silenzio, nello sforzo ventrale e ventricolare si converte: è consistenza di puro tritato di selvaggina…

L’inglese bullet (proiettile) in italiano suona come balletto, ma la parola non entra in un tamburo, rulla e basta; la lingua, in corsa, si piega nella bocca tra salive universali, si addensa massiva come la grinta prima del via; a volte si attacca, nei percorsi lunghi e assolati dell’estate, senza più capire dove finisce il palato e comincia il mutilato…

La grinta ricopre di terra le voci articolate e poi vomita, nell’essenza di energia, i suoi lamenti, le smorfie scomposte tra zigomi e mandibola. Ha un legame con l’infinito destino delle passioni che segna le profondità della carne. In mezzo ai tessuti, il sangue fluisce tra i forzieri del tesoro, il cuore, che ruba il mazzo nel sorpasso, ma cede una carta alla volta se più lento e sorpassato.

Il volo
Il proiettile di carne solleva il passo e divide il peso dell’anima, quando corre; se ben calibrato, abbandona la frazione, sospesa tra il respiro e l’apnea: vola! Con poca fatica, nell’aria rarefatta…

Il volo, nella corsa, riesce come nel sogno, incosciente e nudo, e regna sopra le parole: appiattisce le vocali e con sonanti bisbigli richiama lo spazio dei sensi; gioca la sua vita, si consuma e si rinnova nella sfida tra la gravità e la leggerezza dell’essere più veloce…

Il bersaglio
Il bersaglio non ha forme o colori; non ha cerchi numerati, ma gironi…

E’ invisibile agli occhi ed è già raggiunto nell’istante dello sparo. Viene trasportato con il “grande proiettile di carne” che si innesca dall’onda d’urto di una via affollata di fiati ed archi di polmoni. Salta il bossolo e poi vola per la traiettoria necessaria a giudicare se stesso, poiché bersaglio, ma anche proiettile; colpito e a colpire, stupito e a stupirsi, negli urti e nei sorpassi. E’ il giudice che raccoglie ed assolve i peccati della corsa e del suo mondo interiore, ma sparge e condanna l’euforia del killer, la spavalda falcata del bersagliere e la sua tromba, suonata per primo nella fanfara della doccia, dopo la gara…