31 dicembre 2013

Buon 2014


Da tempo ho messo la testa a posto, ma non ricordo dove.
(Anonimo)

(mariano)


Fino all'anno scorso avevo un solo difetto: ero presuntuoso.
(Woody Allen)
(dada)


Il tempo che ti piace buttare non è buttato.
(John Lennon)


(dada)


Mi domando se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua.
(Antoine de Saint Exupéry)

(sara)

Mi domando se le stelle sono tatuate anche sull'anima.
(marianorun)


25 dicembre 2013

Natale 2013



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6 dicembre 2013

Invictus

“Non importa quanto sia stretta la porta, quanto piena di castighi la vita. Io sono padrone del mio destino, io sono il capitano della mia anima”  

William Ernest Henley, dalla poesia Invictus

Nella cella di Robben Island, così piccola che per percorrerla bastavano tre passi, Nelson Mandela leggeva ogni giorno una poesia intitolata "Invictus" di William Ernest Henley. Leggeva la poesia e ne prendeva l'energia, per 26 lunghissimi anni. 

Mandela apparteneva alla famiglia reale dei Thembu, di etnia xhosa, la seconda popolazione di colore dopo i nove milioni di zulu, in una fertile valle del Capo Orientale, un villaggio di candide capanne. 

La sua biografia è proprio da leggere. E' stato il padre, ed ora sarà il simbolo, della lotta contro l'apartheid.

Voglio sostenere anch'io che la sua forza, almeno una parte di essa, sia da attribuire a questa grande poesia, dal titolo latino "Invictus" che significa "invittto", cioè "mai sconfitto".

Fu composta nel 1875 e pubblicata per la prima volta nel 1888 nel Book of Verses ("Libro di Versi") di Henley, dov'era la quarta di una serie di poesie intitolate Life and Death (Echoes) ("Vita e Morte (Echi)").


Per la cronaca, all'età di 12 anni Henley rimase vittima di una grave forma di tubercolosi ossea, il morbo di Pott. Nonostante ciò, riuscì a continuare i suoi studi e a tentare una carriera giornalistica a Londra. Il suo lavoro, però, fu interrotto continuamente dalla malattia, che all'età di 25 anni lo costrinse all'amputazione di una gamba per sopravvivere. Henley non si scoraggiò e continuò a vivere per circa 30 anni con una protesi artificiale, fino all'età di 53 anni. 


Henley era amico di Stevenson, che si ispirò a lui per il personaggio di Long John Silver ne L'isola del tesoro.


La poesia Invictus fu scritta proprio sul letto di un ospedale.



Invictus                                                                                         


TestoTraduzione
Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance

I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears

Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.

It matters not how strait the gate,

How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.
Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo da un polo all'altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per la mia anima invincibile.

Nella feroce morsa delle circostanze

Non ho arretrato né gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma non chino.

Oltre questo luogo d'ira e lacrime

Incombe il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.

Non importa quanto stretto sia il passaggio,

Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

25 novembre 2013

Questione di stile

Nel mio disordinato mondo, ho appena ritrovato qualcuno che ama fare ordine in luoghi umanamente disordinati...

Richard Davidson, psicologo e psichiatra alla University of Wisconsin, autore del libro “La vita emotiva del cervello”, ha esplorato a modo suo il versante affettivo delle neuroscienze.

Definendo le risposte alle diverse esperienze della vita come "stili emozionali", Davidson ha raccolto a sé le seguenti definizioni per ciascuno dei sei stili emergenti...

Il primo stile è battezzato «la resilienza», la lentezza o la rapidità con cui ci riprendiamo dalle avversità. In campo sportivo è ben noto ai motivatori di ultramaratone.

Poi c'è «la prospettiva», la capacità di conservare le proprie emozioni nel tempo. Fortunato chi riesce a conservare emozioni positive.

Un altro stile è «l’intuito sociale», la capacità di cogliere quegli indizi non verbali che permettono di capire intenzioni e stati d’animo degli altri. Chi ha questo intuito riesce ad attivare una specifica parte della corteccia visiva e l’amigdala. 

Quindi «l’autoconsapevolezza», la capacità di leggersi dentro. La capacità di percepire il proprio battito cardiaco è alla base dell'empatia. 

C'è poi «la sensibilità al contesto», il riconoscere un certo comportamento appropriato in una situazione e non in altra. Entra in gioco l'intuito che appare con la risonanza magnetica esplorando la zona dell’ippocampo. 

Infine c’è «l’attenzione», la capacità di restare concentrati. E' un'abilità cognitiva con un versante emozionale. Infatti ciascuno ha una soglia di distraibilità a seconda del contenuto emotivo dello stimolo che arriva. 

Io mi sono distratto. 

Troppo ordine mi sembra del tutto inutile. Qualche macchia qua e là, qualche linea di fuga annerita o qualche candela consumata può ancora fare l'emozione, lo stile, la grandezza interiore...


17 novembre 2013

Turin Marathon 2013

In questi casi l'importante è partecipare. E poi arrivare al traguardo. E infine essere soddisfatti...

Se poi si decidesse di far finta di nulla, evitare di parlarne troppo e lasciarsi abbracciare solo dalla propria medaglia... sarebbe una grande vittoria...

Io, comunque, corro più veloce di lui..
P.S.: Pettorale 2311. Un invito matematico: 2^ maratona terminata in 3 ore e 11 minuti! 



15 novembre 2013

Dada's marathon


La mia gattona teme la maratona. Le interessano i lunghi sogni e le gustose crocchette; il resto è solo faticosa e inutile follia... 

Più la osservo e più preferisco un muffin alle mele o un cannolo siciliano o un bicchierino di pistacchino a qualunque maratoniano pensierino. E' meravigliosamente umano ragionare come un felino...


Questo pettorale è un po' bestiale

Meglio far finta di nulla...
E filarmela come sempre...



             Tanto corro più veloce...



Quando il sole illumina la mia specie...
         

11 novembre 2013

San Martino

La nebbia a gl'irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.

***


La fischietto, la canticchio, la ripeto. Come i giri del piccolo parco, inquieto. Come un bambino che recita la sua preghiera, in quest'estate di San Martinomentre mi alleno alla maratona di novembre, poco, pochino...

Carducci la scrisse esattamente 130 anni fa, nel 1883. Non so se proprio il giorno 11 novembre, ma voglio immaginare sia stato così. Aveva, allora, l'età che io ho adesso, ma la sua lunga barba io non l'ho mai avuta... 

La poesia adotta la metrica dell'odicina anacreontica. Semplice: odicina è diminutivo di ode; anacreontica è specificativo di stile, quello del poeta greco antico Anacreonte, sentimentale leggero e superficiale...

Strofe da scuole elementari. Da mandare a memoria come lodi naturali. Da masticare come pistacchi salati. Da gustare come dolcetti al cioccolato. Strofe a forma di pantofole a buon prezzo, che fanno tanto casa...  

Chiudo gli occhi e corro immaginando la chioma di Giosuè intenta ad ondeggiare per le vie del suo borgo toscano in quel di San Martino, il giorno in cui terminavano i lavori nei campi e iniziavano le estrazioni dei vini dai tini inebrianti...

Mentre corro, il paesaggio è bianco e nero. Proprio come nella poesia. Ma verso la fine del parco, là dove il tramonto non è ancora passato, sopra le capigliature sfibrate dei platani e le mani fogliose degli aceri, intravvedo il rossastro del cielo che invola i gabbiani più scuri, e infine li rende meno sicuri d'esser vivi. Si fermano per aria in ampi stormi, fitti come la nebbia che sento arrivare dal freddo...

Il profumo è senz'altro quello di nebbia che offusca la mente. E' la nebbia che mi farà correre la maratona, ignaro d'ogni tempesta, alla ricerca del maestrale. Ancora esploratore...

Non la pioggia autunnale, non il ribollir dei tini. Girerò più sui ceppi accesi, esaltando il tempo di esuli pensieri...


1 novembre 2013

Il Sahara

Questa mattina ho corso insieme alla sete; non solo, ero in compagnia. Oltre alle magliette e alle nostre scarpette, il pensiero di una vita oltre la fatica, oltre la negazione di un destino di povertà e umiliazione correva insieme a noi. Oltre l'uomo ed il caso. La fuga.

Ho pensato alla forza della disperazione di chi attraversa il deserto, prima di attraversare il mare, prima di attraversare l'uomo che non lo attende. 


Posso solo immaginare cosa sia. E quando percepisco quella forza, piango. Esce dagli occhi del povero che sorride dietro il finestrino. E mentre lo accontento con una moneta, quella forza mi trafigge. Mi trascende, è troppo importante. La nascondo, mi ritraggo e piango...


Come nel libro di Giobbe alla domanda: da dove vieni, loro possono rispondere «dall'aver percorso la terra...» 



Poveri migranti. Scrive Domenico Quirico:
Non la morte per acqua, questa volta. L'altro mare, il deserto, l'ampio spazio di sabbia e di pietre, li ha inghiottiti, nell'affermazione visibile della sua immensità. Il Mediterraneo è solo l'ultima tappa di un viaggio che dura settimane, qualche volte anni. Da scavalcare, c'è il Sahara e l’avidità di mille mercanti di uomini. 
E' rude l’orizzonte tra Agadez e il confine del Niger dove decine di emigranti, traditi dai camion su cui viaggiavano, schiacciati come bestiame, come merce, sono morti. Il deserto, monotono come il mare, è mutevole come lui. Prima le sabbie piatte su cui i camion affondavano le ruote, poi le contrade di pietre che tolgono il respiro ai motori. Infine l’opprimente caos dei graniti, le montagne dell’Algeria, un'altra tappa del lungo viaggio.
Enormi camion da miniera che servono anche per scavare l’uranio, la ricchezza del deserto, aspettano in strada «i candidati all'emigrazione». Le donne e i bambini chiusi in cortili fetidi, sfamati con brodaglie nauseabonde. I "passeur" fanno mazzo, gai, sguaiati, si scambiano i soldi e le informazioni. Sono Tuareg che conoscono bene le piste e i buoni affari.
Alla frontiera della Libia e dell’Algeria ci sono altri che aspettano, anche loro hanno diritto alla loro tangente, se i migranti non muoiono prima. Molti passeur prendono il denaro e poi percorsi alcuni chilometri sulle piste di sabbia, quando ogni centro abitato è lontano, ordinano di scendere. «C’è un altro mezzo che vi attende dietro quella duna, qualche centinaio di metri a piedi, su coraggio! E riprenderete il viaggio più comodi...». Ma dietro la duna non c’è niente.
Non hanno identità, passaporto, storia. Sono niente. In fondo, quelli che non amiamo non esistono.


Questi poveri Ulisse a cui la sofferenza ha insegnato una pazienza infinita camminano; camminano nell'immensità delle sabbie aride, seguendo quelle vaghe tracce che lasciano il passaggio dei camion, delle bestie, degli uomini. Gli orizzonti tremulano per la calura. Anche loro conoscono i deserti, Vengono dall'Eritrea dalla Somalia dall'Etiopia dal Sudan, la fatica non li spaventa. Sperano nell'ombra di una nuvola errante nell'infinito del cielo, che erra sull'infinito della sabbia. Ma questa passa e se ne va. Piccole ombre rinfrescano le pietre, e vecchie ossa bianche.

Si ammucchiano così, laggiù, sulle montagne morte, portando i loro veli di freschezza e di mistero, là dove non c’è nulla. La sabbia li affoga in un cielo sempre più basso e cupo, mentre il sole si offusca. L’orribile epilogo, la fine da bestia inseguita. Lenta. Non misericordiosa e brutale come quella del mare. Una fine in agonia...

                         

29 ottobre 2013

La compagnia della corsa

Domenica 27 ottobre 2013 

Ritrovo al Parco Dalla Chiesa di Collegno
(Carmelo accovacciato, Andrea, Vito, Gabriele, Gianni, Ennio, Roberto, Marcello e Raffaele)


Abbracci e sorrisi prima della gara sociale
(Carmelo, Vito, Gabriele, Gianni, Marcello, io ed Ennio)


Foto ricordo dell'Atletica La Certosa (quelli che c'erano)

E tutti gli altri?

25 ottobre 2013

La mia ignoranza

“Ho sempre venduto la mia ignoranza” (Richard Saul Wurman) 

Chi non ha mai venduto la propria ignoranza scagli la prima pietra. Io certamente non mi sottraggo, anzi. Quasi quasi mi avvicino all'illuminato, diffuso pensiero... 

Ci sono tante persone che vendono le proprie competenze. Io ho sempre venduto la mia ignoranza”. Si presenta così, Richard Saul Wurman, il fondatore delle celebri conferenze Ted, che uniscono luminari di varie discipline all’insegna del motto “ideas worth spreading”, idee che vale la pena diffondere, di passaggio a Milano per incontrare giornalisti e pubblico nell’ambito della manifestazione Frontiers of Interaction. 
A 78 anni, l’uomo che Fortune in un memorabile articolo definì, un “edonista dell’intelletto” non ha perso la voglia di girare il mondo e guardare da punti di vista inediti ciò che gli altri danno per scontato. “Mentiamo spesso a noi stessi – continua Wurman – fingendo di capire quello che non capiamo e di interessarci a cose che non ci interessano. Prendiamo la crisi economica, di cui si è detto che è costata trilioni di dollari: c’è qualcuno che riesce davvero a capire con l’intelletto quanto sia un trilione? No. Perciò la questione oggi, non è tanto quella di Big Data, quanto di Big Understanding, trovare un linguaggio attraverso cui rendere comprensibili tutti i dati che abbiamo”.

Quasi il manifesto di una vita, per un ex architetto il cui primo grande successo professionale fu, negli anni ’80 del secolo scorso, la serie di guide di viaggio Access, in cui le informazioni turistiche erano organizzate in maniera tale da agevolare, attraverso un nuovo sistema di mappature per aree limitrofe, colori identificativi e simboli grafici di vario tipo il più possibile la consultazione da parte del lettore.
Wurman lancerà l’anno prossimo un nuovo ciclo di conferenze, intitolato “555 ” e reclamizzato come “davvero globale” perché condotto girando in tour per il pianeta.
Se mi avessero chiesto da giovane quello che volevo dalla vita – afferma  è vivere una vita interessante, non per forza bella, ma interessante”. Missione compiuta.

Chi non ha mai comprato l'altrui ignoranza scagli la prima pietra. Io certamente non mi sottraggo, anzi. Quasi quasi mi allontano all'oscuro, illuminato dal pensiero...




14 ottobre 2013

Minuscole metafisiche

Come scriveva Tolstoj e ora canta Fabri Fibra, "ha ragione chi è felice". La felicità dà diritto di cittadinanza alla ragione, la ospita e la ripaga con il sentimento, la partecipazione, la commozione, la necessità di un'appartenenza nuova. 

Ha ragione chi è felice perché ha torto chi felice non è. L'appartenenza politica, la classe sociale, la religione statale, la carriera aziendale, la famiglia tradizionale... sono luoghi non più felici. Singolarità del passato. 

In questa orizzontalità di vedute, gli artisti si sono trasformati in "maestri", i cantanti in "guru", gli attori in "pensatori"... per le nuove generazioni. E questo sulla base di un criterio che è stato battezzato dai sociologi: "autorevolezza sentimentale": qualcosa che guida l'emozione personale. Ti credo perché mi commuovi; ti credo perché mi trasformi, immediatamente, in una persona più felice.

Si è accorciata l'antica filiera, quel cammino "dio-sciamano-credente" dei tempi pre-globali, pre-internautici. Quando Bob Marley cantava il rastafanesimo e i suoi fan si facevano crescere i dreadlocks e si facevano le canne, non era lui che adoravano. Lui era il tramite della religione proclamata dal negus di Etiopia, a sua volta incarnazione di Jah, il dio supremo.

Oggi i sociologi dicono più o meno che "la figura dell'artista-guru ha creato l'illusione che la divulgazione equivalga al contenuto e che poche regole seguite alla lettera siano il viatico per la felicità e il benessere, e magari pure l'lluminazione". 

Una parola, una nota, un'espressione, e si attraversa il confine. Dall'altra parte, dalla parte dell'illuminazione, c'è l'illimitato, conosciuto il quale non c'è più niente da temere. E' una sensazione che stravolge e che potenzia. La nuova conoscenza. 

I sociologi insistono: "la conoscenza non è un dono, è l'indicazione per un cammino, lungo e complicato... In un tempo velocissimo, nessuno può permettersi troppa speculazione: serve il risultato. Semplicità, velocità, brevità. E tatuaggi, slogan sulle magliette e tweet sono libri sapienziali di tali minuscole metafisiche."

Forse la conoscenza può essere un dono, come la felicità, ma deve essere questa: 


12 ottobre 2013

Il confine

E poi ci sono cose che sento mie, ma non so spiegarne il perché. Cose semplici, ripetizioni, moltitudini, suoni. Come certi sacchi di fagioli che vedo al mercato. Ce ne sono di piccoli, grandi, chiari, scuri. Sfumature che sembrano liquidi, vicino ad altri semi, lenticchie, mandorle, nocciole. Si comprano insieme al loro rumore. Cesti rotondi e attraenti, sguardi della natura, strumenti di una terra matura. 

Mi fermo e inizio a pensare. Sono fagioli rampicanti. Sento nelle mani il sapore del tempo che è passato sul mio corpo lasciando per aria le stesse sfumature che ora vedo e respiro. Un passo avanti e due indietro, una foglia sospesa; sono nel quadro l'apertura, la luce nella tela.

Infilo le mani nel cesto, sono insieme a loro, e provo a fare le radici. Nessuno sa il (proprio) confine. In questo viaggio impossibile...





8 ottobre 2013

Cosa significa pensare

"Cosa significa pensare?" se lo domanda Heidegger. Per noi occidentali, pensare significa afferrare, prendere. Acquisire un pensiero per elaborarlo, piegarlo alla nostra volontà, per non lasciare le cose così come stanno. Pensare per possedere, per scoprire il segreto della natura e disporne. 

La tecnica è qualcosa di molto occidentale. L'istinto, qualcosa di molto orientale. La ricchezza materiale è qualcosa di molto occidentale, la ricchezza spirituale qualcosa di molto orientale. Le parole sono più occidentali dei silenzi, quelli che servirebbero nei disastri.

In Oriente, il pensiero non afferra le cose, ma semplicemente le conosce per connettersi ad esse e comprendersi nel tutto che ospita. In Oriente, il pensiero non è mai stato declinato nella direzione del potere. In Occidente, la conoscenza non rivela mai la sua innocenza, ma quasi sempre la sua cupidigia: il potere del tiranno genera esodi di massa; il potere finanziario genera masse di esodati.

In Occidente non lavoriamo per vivere, lavoriamo perché siamo preda di un pensiero che pensa in termini di elaborazione della natura, quella natura che al tempo di Eraclito "amava nascondersi" e che ora, aggredita dal pensiero occidentale, è diventata un deposito di risorse. La terra si coltiva, il sole e il vento si sfruttano, la montagna si frantuma, l'acqua si turbina; dalle piante alle imbarcazioni, dalla pesca alle catene utilitaristiche. Tutto converge nell'homo faber, il soggetto che è in grado di operare una trasformazione reale del pensiero in qualcosa di pratico. In fondo, non sappiamo pensare se non agitandoci.

"Così pensa l'Occidente, da Socrate a Nietzsche: in termini di volontà di potenza e quindi di aggressione e conquista. E non c'è più da stupirsi se il mondo è diventato tutto occidentale, percorso da un pensiero che conosce solo progetti e conquiste".

Eppure, ad un certo punto, Heidegger iniziò a dire che "pensare significa lasciar-essere (lassen) le cose come in se stesse sono, udirne il richiamo (heissen), disporsi all'ascolto (danken)". Un distacco dall'occidente senza mezzi termini!

Scrive ancora Heidegger: "E' venuto il momento di disabituarsi a sopravvalutare la filosofia e, di conseguenza, a pretendere troppo da essa. Nell'attuale povertà del mondo, questo è necessario: meno filosofia e più attenzione al pensiero; meno letteratura e più cura alla lettura delle parole. Il pensiero, infatti, col suo dire, questo solo fa: porta al linguaggio la parola inespressa dell'essere. Ed è per questo che il linguaggio è insieme la casa dell'essere e la dimora dell'essenza dell'uomo. Il pensiero deve scendere nella povertà della sua essenza provvisoria e raccogliere il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è il linguaggio dell'essere come le nuvole sono nuvole del cielo. Il pensiero, con il suo dire, traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nella campagna".

***

Il linguaggio di un corpo libero di correre non sente il fruscio di un pensiero che cerca di trovarne le ragioni... 

Una sola lingua, quella interiore, è assetata di essenze orientali, ma non sempre riesce ad esprimersi. E così si ripiomba in un sonno profondo ed incosciente... 


  

4 ottobre 2013

Omelia del runner

"When you've lost yourself in a minute..." canta in questa canzone, Ocean 5 a.m., il grande Jack, nel breve incipit di un grande concerto di questa estate...

E l'Inferno si è aperto, in un minuto, proprio alle 5 di mattina di ieri, di fronte all'isola dei conigli di Lampedusa. Si è perso l'uomo, si è persa l'umanità, nell'oceano dei sogni bruciati ed affogati. Nella stiva di una vecchia bagnarola, intrappolate, le urla sono riuscite a spaccare i cuori, anche quelli che non battevano più per certi diritti: la libertà di vivere, di sopravvivere e di partecipare. Non sono cose scontate, e qualcuno paga un prezzo insopportabile. Io sento quelle urla vicino...

"And you'll always burn...Ocean 5 a.m  

L’hangar della morte è un capannone alla fine della pista dell’aeroporto di Lampedusa, dove sono state deposte oltre cento anime finora recuperate insieme al rispettivo corpo. Sopra ogni sacco è spillato un numero che servirà alla polizia scientifica. In file doppie seguono il perimetro dell’hangar, dove chi entra ed esce non parla, sente solo il dolore che si è materializzato tra i tessuti ed il calore del proprio sangue.

I sudari di plastica soffocano di rabbia e di dolore. Ed io niente posso fare, neppure dimenticare. E dio pure. "Forgiven" 


24 settembre 2013

Oulx: le immagini impresse

L'importante è non fermarsi...

Al sedicesimo chilometro inizia la salita impegnativa. Il paesaggio è così bello che devo fotografarlo ancora, nonostante conosca il bosco dell'alta valle come nessun altro bosco. Sono passate più di due ore e mezza, e chilometro dopo chilometro sento la montagna entrare nei polmoni, insieme al profumo di terra e di linfa di corteccia. Qualcuno mi raggiunge. C'è il tempo di chiacchierare e questo è il massimo...

Le immagini raccontano per me.


Questo il sentiero nella prima parte di salita, sopra Beaume


Vista del Colle dell'Argentera (sulla destra del sentiero)

Vista del Monte Jafferau (sulla sinistra)
Sosta (troppo lunga) al ristoro di quota 2230 m - Serre du Quin
Verso la Caserma Grotte Seguret - Si vola!
Impennata verso il Ricovero Vin Vert - Si sale!
Quota 2400 m. Mi fermo ad ammirare l'infinito, ma un terribile crampo mi atterra 
Fotografo chi mi sorpassa, desolato. La salita mi appare un muro altissimo...
Qualche minuto dopo riprendo lentamente il controllo e le forze.
Il ricovero Vin Vert a quota 2540 m
Arrivo con flemma e mi faccio fotografare da un amico a cui passo la macchina fotografica
Riprendo il sorriso e m'illudo d'essere arrivato
La strada verso il Colletto del Vin Vert è solo in leggera salita, ma non riesco a correre.
Abbraccio la vallata e mi godo l'aria frizzante e profumata
Ultimo tratto e si arriva a quota 2700
Le bandierine del Colletto, e la cima del Vin Vert alle mie spalle. Sono passate circa 4 ore.
La strada verso il Col Basset è meravigliosa
Al Col Basset ci sono le riprese TV!
Il maestoso viale Rochers de l'Aigle. Che emozioni! Cerco il migliore assetto di corsa...

***

Dopo il ventottesimo chilometro inizia la discesa che tanto attendevo. Mi sembra di volare, ma la sensazione è troppo effimera. Raggiungo il Forte di Foens, a quota 2200 m, troppo rapidamente per la tenuta dei miei muscoli (già frollati). Mi fermo a bere e a mangiucchiare, sorrido, e non so ancora che 100 metri più sotto avrei lottato con le ganasce dei polpacci...


Non potevo più fermarmi, nè correre velocemente. Tenere duro fino alla fine. 
Venti chilometri in queste condizioni sono state una vera palestra mentale. Ho trovato le risorse interiori nella solidarietà con chi stava stringendo i denti esattamente come me...

Giù fino a Roveres e poi a Beaulard, sempre tra sentieri boschivi, a 1100 m. E poi ancora salita a Chateau Beaulard, a 1400 m. E poi giù fino all'ultimo chilometro prima di Oulx, dove una deviazione "cattiva" ci fa salire di altri 150 metri di dislivello, prima di fiondarci sul prato d'arrivo... Bestiale... 

Arrivo muscolarmente provato in 7 ore e 2 minuti. Sono 48 esimo su 100 arrivati al traguardo. In questa misura c'è un limite da superare. E questo, anche se non è logico, è ciò che intenderò fare alla prossima edizione...

Quando mi ripiglio, faccio alcune foto di altri che sopraggiungono
Trovo la cura in una successione di crostate e panini alla mortadella...
Ascolto il presidente di Find the cure...
Assisto alla premiazione...

I miei piedi prima della doccia: nonostante le spesse calze sono sporchi da paura!