13 febbraio 2012

La passeggiata

Sono salito a vedere i tetti di questo paese; mascherati da Pulcinella, trainati dai vapori dei camini, ondeggiavano dietro ai respiri. I tetti, dall’alto, possono riassumere dieci o cento vite in un colpo d’occhio di pochi gradi. Sotto zero, poi, non si distingue che qualche molecola di fumo fuggita dalla neve. Brucia il tempo ancora verde, là dove si alza l’albero grigio; e qui, sotto un cappello di lana, nel mio rifugio. 

Anche Gadda osservava i tetti e scriveva, a proposito di Milano, a metà del Novecento, così:
«Il fatto sta che i tetti palesano inclinazioni diverse, ma tutte pessime; poi dislivelli e salti quanto mai leggiadretti; poi fratture e interruzioni e gobbe e foruncoli d’ogni maniera. Vi si aggrappano lucernari e abbaini, vi si ergono birilli rossicci, i camini della miseria. C’è di tutto, sui tetti. Tubi di sfiato, rugginosi come le scarpe della Befana, serbatoi di lamiera o di cemento, torricole che paiono stie per i polli (con qualche piccionaia autentica e assai mèmore e cara), gabbie, antenne, reticoli, fili a vento, piccioni, gatti e ratti.»
Lo stile gaddiano, quando non nitrisce oltre misura, mi è congeniale. Lo sento vivo, con affinità animale…

Con un salto nell’estate, per riscaldarmi due minuti e prima d’immaginare la vita di questa sera, trascrivo una mia vecchia poesia in tema ascensionale, laterale di pensiero come un volo... 

Il bosco dei tetti 

Da qui a fondovalle
l’incastro dei tetti galleggia
in case abitate
come famiglie d’anatre lontane
dai becchi mattone,
da riva.


Salendo oltre vedo formiche su pance di mucche
in mutua simbiosi di corpi
che sfumano
in escrezioni di foglie d’insonnia.

Oltre ancora
il senso è febbrile punteggiatura

di parassita
di macula solitaria
di esploratore.

Il bosco dei tetti è sparito.

Sotto il mio dito
rimane una nuvola
scura, e l’unghia
che la ferisce,
dura…

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