29 novembre 2015

You've got a friend

Se sei libero sei tu che crei il mondo; se non sei libero il mondo crea te.
(Efim Tarlapan)

La verità sta nel freddo che ci ricopre ancora prima di aprire la finestra del mattino. Ancora prima di aprire gli occhi e immaginare la luce, la "Gravity". Potrei essere, posso essere, non ho l'obbligo d'essere. E sia. Mi sento appena vivo, mentre i Coldplay m'impongono di dormire ancora. La caldaia in blocco è il mondo che si è creato intorno a me. E devo intervenire. Devo aprire gli occhi ora. Now. Questo non è certo "Magic". 

Poi mi trafigge un raggio di sole. E si spacca l'azzurro segretamente ghiacciato. Il segreto della libertà è il coraggio. E sia. Per fortuna basta girare una manopola e la pressione ritorna libera di esprimere calore rigenerante. La doccia non è sufficiente. Il caffè non è niente. La musica è la soluzione finale. Entro nel mio vapore al ritmo di "Midnight", e qui è "Fly on". A flock of bird nella notte incosciente, dove non si esiste e non c'è libertà. They fly away... Sopra l'"Ocean", fino al suono delle campane, al "True love" per l'introspezione...

Tutta questa melodia meraviglia anche la mia pigra allegria. Canticchio fino all'appuntamento con la corsa. Con lo spazio libero che crea il mondo intorno a noi. Intorno a chi trova il coraggio e l'equilibrio di non cadere da questa vita. Sempre in bilico. Tra il sorriso e lo smarrimento. Si apre la valle ed è bello leggerla. Da sinistra verso destra. Fino al tramonto occidentale. Intanto è sorgente. E' ancora soleggiante.


il mondo ondeggiante

Nuovi esploratori alla conquista del Musinè
E' ancora "dovere di essere liberi", come domenica scorsa. "Il piacere di esserlo è nei passi e nei respiri e nelle cadute e nelle mani che si stringono intorno ai nostri sorrisi". Né più né meno. 

Grazie Paolo, Vincenzo, Stefania, Livio, Roberto, Samanta e Mara.


P.S.: All'arrivo era un'altra musica...




22 novembre 2015

Up & Down

"La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere."
Oriana Fallaci, Un uomo

Nuovi scenari di trail si affacciano liberi all'orizzonte. Oggi non è novembre, non è inverno. Il cielo è libero da nuvole. Libero da scie. Vuoto di pensieri di odio per il freddo che fugge terrorizzato dal sole. Oggi è calore. Per tutti.

C'è sempre la cacciata di qualcosa o di qualcuno nella natura o nella vita? Forse. Ma la libertà ritorna. E' sana, è accogliente. Si misura con il diverso. Si intromette nelle scelte perché ama le mete da scoprire... 

Ritorno alla corsa, alla pendenza. Alla passione per quello che è più libero e più caro e più degno. Stare in mezzo alla libertà che è in mezzo alla vita che è al centro di braccia aperte alla conoscenza. Di ciò che è reale e di ciò che è immaginario. Perché non c'è verità senza consapevolezza che nessuna verità è unica e superiore alle altre.

Il dovere di essere liberi è questo. Il piacere di esserlo è nei passi e nei respiri e nelle cadute e nelle mani che si stringono intorno ai nostri sorrisi. 

Grazie Biagio, Gabriele, Cristina, Stefania, Arianna e Francesco.


Quasi arrivo al Moncuni
Moncuni (641 m), collinetta delle Alpi Cozie...

21 novembre 2015

Paris

« La guerra per la mia generazione è stata una serata trascorsa a guardare la televisione. Negli ultimi anni mi è capitato di ripetere centinaia di volte quest’affermazione. E suscitavo nel pubblico stupore o fastidio. Ora che quella lunga stagione è finita mi pare più vera che mai. 
Siamo il pezzetto di umanità più agiato, longevo, sicuro, protetto, meglio vestito, nutrito e curato che abbia mai calcato la faccia della terra rispetto a qualsiasi altra epoca o luogo del pianeta. La pace, tra tutti, è stato il privilegio più grande. 
Noi non abbiamo nessuna esperienza diretta della guerra. Siamo una generazione disarmata e imbelle. Abbiamo fatto il servizio civile e quelli nati dopo nemmeno quello. La maggior parte di noi, non solo non ha mai ucciso né ferito ma non ha nemmeno mai toccato un’arma in vita sua. La maggior parte di noi non ha mai visto nessuno dal vivo morire di morte violenta e, in molti casi, non ha mai incontrato la morte in nessuna forma, requisita da ospedali e servizi specializzati. La morte è per noi figli dell’Occidente maturo una terra straniera. Tutto ciò rende ancora più atroci e vili le stragi perpetrate a Parigi: i fucili mitragliatori hanno aperto il fuoco contro un’umanità nata e cresciuta in un ambiente interamente demilitarizzato, fisicamente e mentalmente. Come aprire il fuoco in una scuola d’infanzia. 
Noi abbiamo vissuto in una seconda condizione mai sperimentata prima: a una quasi totale inesperienza diretta della guerra si è accompagnata una quantità immane e crescente di esperienze mediate di essa. Siamo i primi ad aver assistito in diretta televisiva allo scoppio di una guerra. Era la notte tra il 17 e il 18 gennaio del 1991, gli aerei della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti bombardavano da 10.000 piedi d’altezza la popolazione di Baghdad e noi assistevamo dai salotti di casa nostra allo spettacolo dei traccianti della contraerea che solcavano il cielo iracheno trasfigurato dal mistico verde delle telecamere ad alta densità per le riprese notturne. In quel preciso momento si è prodotto un mutamento profondo a livello delle strutture basilari dell’esperienza. Se fino a prima in rapporto alla questione della violenza letale il differenziale antropologico fondamentale era stata la distinzione tra vittima e carnefice, tra ucciso e uccisore, da quel momento in avanti la differenza decisiva è diventata quella tra la coppia vittima-carnefice da un lato dello schermo e il telespettatore dall’altro. Saddam Hussein dichiarò allora che quella per Baghdad sarebbe stata la «madre di tutte le battaglie». Aveva ragione. Nasceva allora un tipo di conflitto che sarebbe stato combattuto in vista dei suoi effetti mediatici.
Per quanto le morti e le distruzioni fossero reali, le vittime sarebbero state colpite innanzitutto in qualità di simboli, moltiplicatori di messaggio, le narrazioni interamente manipolate da forme evolute di propaganda, la parola guerra costantemente travisata da grotteschi eufemismi, le motivazioni del ricorso alle armi sempre più affidate a menzogne evanescenti, l’esercizio della violenza sempre più delegata a organizzazioni e corpi professionali e/o criminali, la rappresentazione della violenza sempre più addomesticata in uno spettacolo per famiglie del sabato sera. 
In tutta questa lunga stagione arida la guerra non è scomparsa dalle nostre vite. Al contrario. Ha abitato le nostre case da ospite fisso. Ma le ha infestate come un fantasma, un’astrazione, un’oscura minaccia, uno spettro elettronico, un demone dei tempi antichi. Abbiamo continuato a vivere in pace mentre i confini del nostro mondo s’intridevano di sangue. Per tutte queste ragioni eravamo divenuti incapaci di concepire la guerra come una cosa reale. 
Dal 13 novembre non è più così. Hanno aperto il fuoco su di noi, in carne e ossa, ammazzandoci a sangue freddo e a bruciapelo mentre sorseggiavamo i nostri Pastis. François Hollande ha proclamato la guerra senza eufemismi, infingimenti, mistificazioni. E ha invocato il nostro aiuto in nome di un giuramento fondativo dell’unione europea (l’articolo 42.7 del trattato). La questione adesso è cruciale: verremmo meno ai patti giurati? E se non lo faremo, smarriremo le nostre ragioni di uomini pacifici combattendo per esse? Come combatte in guerra un popolo che non ha mai addestrato ad essa i propri figli preferendo educarli alle arti liberali del tempo di pace, come combattono gli uomini che amano il vino, le donne, la musica, la danza, la parola franca, la pittura del volto umano, la libertà in ogni sua forma, fosse anche la più sciocca, che amano i Beatles – she loves you yeah yeah yeaaaah – e le vacanze al mare, come combatte, in una parola, un popolo che ama gli ozi sublimi della pace? 
Le nostra storia nei suoi momenti più alti ci fornisce una sicura risposta. Fin dalle sue origini. Fin dall’Epitafio di Pericle per i caduti ateniesi del primo anno di guerra contro Sparta. Noi che amiamo il bello, il sapere, la libertà ci distinguiamo dai nostri avversari anche nel predisporci alla guerra – ricordava lo statista ateniese ai suoi concittadini seppellendo i propri morti. La nostra città è aperta a tutti, né mai con espulsioni di stranieri impediamo ad alcuno di apprendere o di osservare. Convincetevi che la felicità è data dalla libertà e la libertà dal coraggio: non lasciatevi dunque intimidire dai pericoli della guerra.»
Articolo di Antonio Scurati, tratto da La Stampa del 18/11/2015 


Più esattamente, Pericle diceva: "Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, e la libertà sia solo il frutto del valore." 

Perché impugnare i tomi sacri delle religioni quando tutto sta scritto in una semplice riga...

8 novembre 2015

La freccia

L’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche (Isc-Cnr), in collaborazione con Sapienza Università di Roma e l’Università dell’Aquila, ha trovato la prova sperimentale che la freccia del tempo non può essere invertita, neppure in sistemi quantistici. I risultati sono pubblicati su Scientific Reports.

L'istinto di Confucio rimane inattaccabile: "Abbiamo due vite: la seconda inizia quando ci rendiamo conto di averne solo una". 

Perché indietro non si torna, e non si può stare neppure fermi. Il tempo per fare due passi di corsa su due corsie di sorpasso è l'unica libertà che sfreccia per caso in mezzo al buon senso delle nostre vite. Una freccia assonnata scocca ogni giorno dai nostri occhi che s'aprono alle cose del mondo: sta a noi non perderla di vista. Mancare il bersaglio tutti i giorni non è quello che voglio.