1 novembre 2013

Il Sahara

Questa mattina ho corso insieme alla sete; non solo, ero in compagnia. Oltre alle magliette e alle nostre scarpette, il pensiero di una vita oltre la fatica, oltre la negazione di un destino di povertà e umiliazione correva insieme a noi. Oltre l'uomo ed il caso. La fuga.

Ho pensato alla forza della disperazione di chi attraversa il deserto, prima di attraversare il mare, prima di attraversare l'uomo che non lo attende. 


Posso solo immaginare cosa sia. E quando percepisco quella forza, piango. Esce dagli occhi del povero che sorride dietro il finestrino. E mentre lo accontento con una moneta, quella forza mi trafigge. Mi trascende, è troppo importante. La nascondo, mi ritraggo e piango...


Come nel libro di Giobbe alla domanda: da dove vieni, loro possono rispondere «dall'aver percorso la terra...» 



Poveri migranti. Scrive Domenico Quirico:
Non la morte per acqua, questa volta. L'altro mare, il deserto, l'ampio spazio di sabbia e di pietre, li ha inghiottiti, nell'affermazione visibile della sua immensità. Il Mediterraneo è solo l'ultima tappa di un viaggio che dura settimane, qualche volte anni. Da scavalcare, c'è il Sahara e l’avidità di mille mercanti di uomini. 
E' rude l’orizzonte tra Agadez e il confine del Niger dove decine di emigranti, traditi dai camion su cui viaggiavano, schiacciati come bestiame, come merce, sono morti. Il deserto, monotono come il mare, è mutevole come lui. Prima le sabbie piatte su cui i camion affondavano le ruote, poi le contrade di pietre che tolgono il respiro ai motori. Infine l’opprimente caos dei graniti, le montagne dell’Algeria, un'altra tappa del lungo viaggio.
Enormi camion da miniera che servono anche per scavare l’uranio, la ricchezza del deserto, aspettano in strada «i candidati all'emigrazione». Le donne e i bambini chiusi in cortili fetidi, sfamati con brodaglie nauseabonde. I "passeur" fanno mazzo, gai, sguaiati, si scambiano i soldi e le informazioni. Sono Tuareg che conoscono bene le piste e i buoni affari.
Alla frontiera della Libia e dell’Algeria ci sono altri che aspettano, anche loro hanno diritto alla loro tangente, se i migranti non muoiono prima. Molti passeur prendono il denaro e poi percorsi alcuni chilometri sulle piste di sabbia, quando ogni centro abitato è lontano, ordinano di scendere. «C’è un altro mezzo che vi attende dietro quella duna, qualche centinaio di metri a piedi, su coraggio! E riprenderete il viaggio più comodi...». Ma dietro la duna non c’è niente.
Non hanno identità, passaporto, storia. Sono niente. In fondo, quelli che non amiamo non esistono.


Questi poveri Ulisse a cui la sofferenza ha insegnato una pazienza infinita camminano; camminano nell'immensità delle sabbie aride, seguendo quelle vaghe tracce che lasciano il passaggio dei camion, delle bestie, degli uomini. Gli orizzonti tremulano per la calura. Anche loro conoscono i deserti, Vengono dall'Eritrea dalla Somalia dall'Etiopia dal Sudan, la fatica non li spaventa. Sperano nell'ombra di una nuvola errante nell'infinito del cielo, che erra sull'infinito della sabbia. Ma questa passa e se ne va. Piccole ombre rinfrescano le pietre, e vecchie ossa bianche.

Si ammucchiano così, laggiù, sulle montagne morte, portando i loro veli di freschezza e di mistero, là dove non c’è nulla. La sabbia li affoga in un cielo sempre più basso e cupo, mentre il sole si offusca. L’orribile epilogo, la fine da bestia inseguita. Lenta. Non misericordiosa e brutale come quella del mare. Una fine in agonia...

                         

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