Nell'ultima corsa avevo accolto l'etimologia di una radice che spezzava l'asfalto rovente. Correre poteva dunque parlare di cose genuine. Certo in uno sforzo condiviso. In una risata in faccia al mondo. Vivace. Loquace. Passeggera.
Dalla crepa, sottoterra, l'inconscio irragionevole ha proseguito la sua naturale visione del movimento. E l'asfalto ha lasciato il posto alla terra bagnata. La calura alla fresca pioggia. La polvere al fango. La pianura alla montagna. L'irrilevanza dell'etimologia alla sostanza dell'entelechia. Viva. Silenziosa. Finale.
Irrilevanza nel senso di "rilievi inesistenti" che la pianura non può offrire alla mente quando corro. La storia delle parole circolanti nell'allenamento senza verticalità è breve. Le radici emotivo-logiche sono corte. Pista, crono, metro. Parco, curva, piede. Puzza, striscia, moto.
Sostanza nel senso di "sosta nutriente" che la montagna offre alla mente quando impone alla corsa di rallentare, di fermare il pensiero. E di portare a compimento una missione radicale: attraversare se stessi al contrario. Dal basso verso l'alto. Anziché scendere nelle viscere delle proprie emozioni, salire tra le nuvole dei propri desideri. Le radici sono lunghe e illogiche, ma motivanti. Mulattiera, cinguettio, temporale. Arcobaleno, tornante, pozzanghera. Inebrianza, naturalezza, movimento.
Entelechia, dal greco entelécheia, significa "avere" (échein) "il compimento" (télos) "in sé stessi" (en)’. Per Aristotele, una realtà che contiene (in se stessa) la meta finale verso cui evolvere.
Entelechia è la tensione di un organismo a realizzare se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto. Una sorta di finalità interiore necessaria per raggiungere il suo pieno sviluppo. Per esempio, Giulio Cesare conteneva già in sé la vittoria sul Rubicone. E Michelangelo, parlando delle sue statue, ricordava che era il pezzo di marmo ad avere già dentro di sé quella figura, che chiedeva di uscire.
Il libero arbitrio era un concetto che Aristotele non poteva ancora stimare. Ma non importa. Ciò che conta è che per entelechia, per caso o per fortuna, sicuramente per azzardo, sabato mattina io e Paolo ci siamo spinti verso le montagne intorno a Piossasco. Erano loro a contenerci tra i sentieri erbosi, e noi a comprendere le montagne stesse, come fossero mete necessarie per poterci osservare dall'alto anche solo per qualche istante, respirare l'aria del traguardo, e poi tornare nuovamente ai piedi stanchi,
con un altro sguardo...
 |
Felici, dopo 20 km e 800 m D+ |