11 gennaio 2012

La condivisione

La condivisione è fantastica quando è festa, passione, progetto, amore. Un po’ meno in altri casi, ma è comunque sostanza della vita, tempio della costruzione dell’uomo.
Al giorno d’oggi la gente sa il prezzo di tutto, ma non conosce il valore di niente, diceva Oscar Wilde.
Come prima cosa dobbiamo imparare ad essere uomini, ovvero riconoscere il valore della condivisione e prendere i bisogni del proprio fratello come misura per le proprie azioni, senza mai dimenticare che gli altri esistono in noi, come noi esistiamo negli altri, che il nostro desiderio di felicità include la felicità degli altri.

«In molte culture indigene del Nord America, la generosità è un aspetto centrale del comportamento nel sistema economico e sociale. Un esperimento informale ha esaminato cosa accadeva quando alcuni bambini provenienti da una comunità bianca e una comunità lakota ricevevano due lecca-lecca ciascuno. Tutti i bambini mangiavano subito il primo; poi però i bambini bianchi mettevano il secondo in tasca, mentre i ragazzini delle comunità indigene offrivano il loro a chi non ne aveva ricevuto neanche uno. Non meraviglia che la cultura possa condizionare il modo in cui le riserve vengono accumulate e distribuite, stabilendo, per esempio, che il risparmio debba essere socialmente prioritario rispetto alla condivisione; ma l’esperimento ci rammenta anche che l’opposto del consumo non è la parsimonia, bensì la generosità»
(Raj Patel, Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo)

Il mondo è pronto ad accogliere nuovi modelli, più adeguati ai bisogni reali della gente, che poggiano sulla coesione, sull’unità delle persone e sulla loro interdipendenza. Le nuove parole chiave saranno: rivalutare, ristrutturare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare.

«La società della crescita e del benessere non realizza l’obiettivo proclamato della modernità, vale a dire la massima felicità possibile per il massimo numero di individui. La classifica della britannica New Economics Foundation (non governativa) ha elaborato un indice della felicità (happy placet index) che ribalta l’ordine classico del Pil pro capite e anche quello dell’indice si sviluppo umano (Isu). La classifica vede in testa il Costa Rica, seguito dalla Repubblica Dominicana, dalla Giamaica e dal Guatemala. Gli Stati Uniti vengono soltanto al 114° posto. Questo paradosso si spiega con il fatto che la società cosiddetta «sviluppata» si basa sulla produzione massiccia di decadenza, cioè su una perdita di valore e un degrado generalizzato sia delle merci, che l’accelerazione dell’«usa e getta» trasforma in rifiuti, sia degli uomini, elusi e licenziati dopo l’uso, dai presidenti e manager ai disoccupati, agli homeless, ai barboni e altri rifiuti umani. La teologia utilizzava un bel termine per indicare la situazione di chi non era stato toccato dalla grazia: derelizione. L’italiano, più religioso, sceglie un termine più laicizzato di uso quotidiano e parla di «disgraziati». L’economia della crescita ha la derelizione come motore e moltiplica i «disgraziati». In effetti, in una società della crescita quelli che non sono dei vincenti o dei killer sono tutti più o meno dei falliti. Al limite, nella guerra di tutti contro tutti, c’è un solo vincente, dunque un solo challenger potenzialmente felice, anche se la sua posizione, di necessità precaria, lo condanna alla tortura dell’ansia. Tutti gli altri sono votati ai tormenti della frustrazione, della gelosia e dell’invidia. Così come si impegna nel riciclaggio dei rifiuti materiali, la decrescita deve interessarsi anche alla riabilitazione dei falliti. Se il miglior rifiuto è quello che non viene prodotto, il miglior fallito è quello che la società non genera. Una società decente non produce esclusi»
(Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi)

Se il miglior rifiuto è quello che non viene prodotto, il peggior sorriso è quello che viene negato, e così il peggior abbraccio, e il peggior bacio. Una società indecente produce gli esclusi, le isole e le mareggiate.

  

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