25 gennaio 2012

Il capitalismo

Mi trovo con un interessante articolo in mano, tratto dal Corriere della Sera di oggi. Lo leggo e mi accorgo d’essere al capezzale di un’idea che ha mosso l’umanità e indirizzato l’evoluzione delle principali società civilizzate. Il capitalismo è sdraiato e appare così, agli occhi ben aperti di Danilo Taino: 
“Non ha mai avuto una faccia tanto brutta e incattivita come oggi, il capitalismo. In pochi anni, è invecchiato e si è irrigidito. Un tempo sollevava speranze, oggi non attrae più e qualche volta repelle. Non è che sia in crisi. È che è così potente da essere insopportabile. Vittima del suo stesso successo, dilagante dopo il crollo del socialismo reale, è diventato il contrario di ciò che ha sempre predicato: invece di liberare forze, come spesso nella storia ha fatto, oggi tende a schiacciarle, a limitare lo sviluppo del nuovo oppure a mangiarselo subito. La crisi finanziaria esplosa nell'autunno del 2008 è stata probabilmente la porta che lo ha introdotto in una sua fase nuova, quella della distruzione, invece che della creazione, della ricchezza.

Il disagio dell'Occidente contro i nuovi capitalisti è molto più vasto: perché, per la prima volta, la classe media sente che le ricchezze accumulate e le differenze sociali sono ingiuste, non meritate, non frutto di imprenditorialità, di premio del lavoro, ma risultato di rendite e di partecipazione ai network del potere e del denaro. Se il capitalismo diventa un club chiuso, ha finito di essere la forza motrice del mondo che è stato per decenni.

Lenin con il sigaro, come fosse un tycoon americano. È questa la copertina dell’Economist, il settimanale britannico che dedica una lunga inchiesta alla crisi e alle trasformazioni del capitalismo.

Il quotidiano finanziario della City di Londra, il Financial Times, dedica articoli e articoli a un dibattito che va sotto il marchio Capitalism in Crisis.

Succede che i vecchi paradigmi sui modelli di capitalismo si sono come dissolti, sembrano non avere più senso: contrapporre il modello anglosassone a quello renano, di gran moda per vent'anni, fa sorridere, oggi che sulla scena il modello crescente è quello centralizzato cinese. In discussione è l'anima stessa del capitalismo. E la domanda che sale, a Occidente come a Oriente, è questa: c'è ancora una relazione creativa tra capitalismo e mercato oppure il primo ha appiattito se non azzerato il secondo?

La globalizzazione ha portato sotto l'ombrello capitalista gran parte del mondo: la Cina, l'India, il Vietnam e quasi tutta l'Asia, oltre che molti altri Paesi un tempo attratti dalle economie pianificate o da modelli caotici, dal Sudafrica al Brasile. In questi Paesi, però, non è stata l'economia aperta a trionfare. Per costruire le loro economie, spesso gli ex Paesi poveri ricorrono alla creazione di enormi aziende controllate dallo Stato - o dal regime come nel caso della Cina. Potenti conglomerate che usano denaro pubblico e agganci politici per farsi spazio nelle economie domestiche e internazionali. Sono le società dell'energia come la saudita Aramco, la russa Gazprom, l'iraniana Nioc, la Qatar Petroleum, la Petrochina che ormai dominano il business del greggio e del gas. Sono le telecom, le imprese di costruzione, le banche, le società minerarie dei Paesi emergenti che, appoggiate e finanziate dai loro governi, stanno dando l'attacco ai mercati internazionali a suon di acquisizioni.

Il fenomeno non è in sé nuovo. Anche la East India Company britannica fu, più di tre secoli fa, sostenuta dalla corona britannica nella sua espansione in Asia e fu funzionale alla nascita del capitalismo. Nuovo è il fatto che queste portentose imprese - capitaliste nella logica ma di Stato nella proprietà - stiano attaccando il modello privato conosciuto finora. E con notevoli successi. A livello globale, nell'energia oltre il 65% delle imprese (in valore) è controllato dallo Stato; nei servizi come acqua, telefoni, luce, oltre il 50%; in finanza il 35% e via dicendo. Tra i maggiori dieci gruppi internazionali per capitalizzazione, già quattro sono controllati da governi: la cinese Sinopec, la China National Petroleum Corporation, la rete elettrica della Cina, le Poste giapponesi. L'80% del valore della Borsa cinese è fatto da imprese pubbliche. In Russia siamo al 62% e in Brasile al 38%. Il legame tra capitalismo e privato, in altri termini, non è più un fatto scontato, anzi: nei Paesi emergenti il capitalismo è una delle facce dello Stato (spesso totalitario).

Il fatto più straordinario è però che lo Stato sia sempre più determinante anche in quella che una volta era la terra del libero mercato, l'Occidente. La crisi finanziaria ha mostrato al mondo l'esistenza di imprese - soprattutto banche ma non solo - così grandi, intrecciate a infiniti settori dell'economia e così potenti da rappresentare elementi di sistema, cioè qualcosa che è privato nella forma (e nei profitti) ma ha una caratteristica pubblica, perché se fallisce crea disastri a tutti. Sono le cosiddette imprese too-big-to-fail, troppo grandi per fallire, che di fatto hanno imposto a tutti l'obbligo di salvarle con denaro dei contribuenti anche quando dovrebbero finire a gambe all'aria.

In altre parole, il capitalismo è sempre più intrecciato allo Stato, a Oriente come a Occidente, nei Paesi poveri come in quelli ricchi. Ciò significa, nella grandissima parte dei casi, corruzione, scambi di favori tra politica e business, formazione di élite cooptate e non fondate sul merito e soprattutto pratiche brutali per tenere fuori dagli affari chi non ha protezioni, con conseguenti barriere alte all'ingresso e limitazioni della creatività e dell'innovazione. In sintesi, nei Paesi emergenti il modello cinese avanza. E nei Paesi ricchi siamo di fronte a un capitalismo che premia poche oligarchie, cresce sulle rendite e così facendo distrugge il capitale…

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