17 gennaio 2012

Il capitano

Il capitano di una nave è più di un comandante. E’ una figura rapita dalla mitologia e dalla letteratura, dalle cronache di pace e di guerra; un esempio, un modello e forse un sogno. C’è una sorta di capitano in ognuno di noi, che sovente evochiamo per farci guidare nella realtà…
Se gli antichi Romani avevano Palinuro, il mitico pilota della nave che conduceva Enea e che morì colpito dal dio del sonno (narra Virgilio), nel mondo moderno abbiamo Herman Melville che ha inciso nell’immaginario la figura del capitano Achab, comandante del Pequod, la baleniera che caccia Moby Dick (la grande e simbolica balena bianca). Achab significa “il padre è fratello” e rimanda a una relazione con Dio. Nel IX secolo prima della nostra era ci fu un Achab re d’Israele che nella Bibbia passò alla storia come il peggiore degli idolatri perché si lasciò trascinare dalla sposa Gezabele al culto delle divinità straniere. Il comandante di Melville ne eredita l’aspetto negativo perché mostra meglio di ogni altro gli idoli che noi moderni inseguiamo con ostinazione.

Anche un capitano inflessibile fino alla crudeltà attira una qualche simpatia: è il caso del comandante William Bligh che fu al centro del più celebre ammutinamento della storia, quello del Bounty, una fregata mercantile della marina britannica, con 28 cannoni, che salpò nel dicembre 1787 diretta a Tahiti. Sulla vicenda si sono girati molti film, e c’è anche un racconto di Jules Verne, ma quel che rende orgogliosi gli inglesi è che il capitano Bligh, costretto dai ribelli ad abbandonare la nave, riuscì comunque a raggiungere la colonia olandese di Timor percorrendo oltre 3600 miglia nautiche con una semplice imbarcazione di fortuna, pochi mezzi e 47 giorni di viaggio, stabilendo un record ancora imbattuto.

Molti comandanti coraggiosi. Quello del Titanic, Edward Smith, che nell’aprile del 1912, dopo la collisione con un iceberg nel nord dell’Atlantico, affondò con la sua nave, in meno di tre ore. Quello dell’Andrea Doria, Piero Calamai, che nel luglio del 1956, dopo lo scontro con la Stockholm, rifiutò di mettersi in salvo… E il capitano Shackleton: lui merita un racconto a parte. Nel 1914 scrisse: "si cercano uomini per un viaggio pericoloso. Bassi salari, freddo intenso, lunghi mesi di tenebre, rischio costante, ritorno incerto. Onori e riconoscimenti in caso di successo". Era la conquista dell'Antardide. Si salvarono tutti...

In ogni capitano, infine, la cultura occidentale tende a evocare riflessi dell’Ulisse di Omero. C’è sempre un’isola da raggiungere, si chiami Itaca o assomigli a un sogno. C’è continuamente qualcosa o qualcuno da sfidare…

C’è o forse c’era “quel” Capitano. Oggi il mito si è infranto sulle coste di un’altra Itaca, pallida come un Giglio illuminato dalle luci di un tramonto di significati. Il tramonto del fascino di un condottiero dalle mille patrie, confuso in un ruolo troppo grande e troppo serio per il mondo circostante.


Un capitano, quello della Concordia, Francesco Schettino di Castellamare di Stabia, che merita la gogna mediatica, l’insulto della gente, ed anche uno sputo generazionale...

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