29 gennaio 2014

FCA

Per tutti i diavoli, che "marchione" è mai questo?

Dal Sole24 ore:
" Nel marchio le tre lettere vivono all'interno di una raffigurazione geometrica ispirata alle forme essenziali della progettazione automobilistica: la F, generata dal quadrato simbolo di concretezza e solidità; la C, che nasce dal cerchio, archetipo della ruota e rappresentazione del movimento, dell'armonia e della continuità; e infine la A, derivata dal triangolo, che indica energia e perenne tensione evolutiva.
Il marchio genera un linguaggio agile, moderno, capace di cambiare continuamente senza mai perdere la propria valenza identitaria. "
Fino a ieri FCA mi diceva solo "free carrier", che non significa libera carriera ma "franco vettore", ovvero consegnare la merce sdoganata all'esportazione, una modalità di scambio merci ben definita.

Oggi tutto cambia. FCA può sembrare una contrazione lassativa di qualcos'altro, qualcosa che può partire da una "fava di FuCA". Oppure può sembrare un orientamento anisotropo, come quello che permette di scorrere solo in avanti, senza scivolare indietro, delle fibre della favolosa "pelle di FoCA"...

In enigmistica, l'operazione di eliminazione di una lettera da una parola si chiama propriamente "scarto". FCA può dunque sembrare già in partenza uno scarto. Il marchione, a vedersi, non ha certo l'eleganza dell'acronimo completo di "Fiat Italia Chrysler America".

Certo, FCA sarà la deviazione standard, o scarto tipo, della soddisfazione (alla guida) di un povero italiano rispetto al valore atteso di soddisfazione di un ricco tedesco. Un indice di dispersione che io, deviato, non vorrei fosse la radice quadrata della varianza, ma il quadrato della speranza che è sempre l'ultima a morire.

Nessuna traccia di rimpianto. Viva il DNA (italiano), non la DuNA, però!


26 gennaio 2014

Il profumo

In questi giorni di allenamenti senza mete, di parole travasate da un respiro all'altro, di chiacchiere abbandonate ai tramonti ventosi e altre cose vissute correndo per caso, il naso è sempre stato il filtro magico verso un certo infinito.

Per correre come un cane a sei zampe basta un po' di voglia di stare sulle gambe, ma per svolazzare come un aquilone nelle sfere delle sensazioni è necessario respirare... con i neuroni.

Risalendo una braciola c'è chi raggiunge il paradiso dantesco. Ma io preferisco, solo per un pretesto, ricercare il profumo del vino. Quando corro mi faccio rapire dai cosiddetti "sentori", quelli primari, secondari e terziari...

E allora, come i sentori primari di un vino sono i profumi che dipendono dal tipo d'uva utilizzata e dal terreno in cui si coltiva, così i sentori primari della mia corsa sono profumi che dipendono dalla compagnia e da dove si corre (strada di città, viale di un parco, sentiero di montagna...).

Se i sentori secondari di un vino sono i profumi della vinificazione, trasferiti dalla pigiatura e dalla fermentazione, i sentori secondari della corsa sono i profumi della fatica e del sudore, dei lamenti, degli sbuffi, dei sorrisi e delle smorfie, delle storte e delle strette di mano che una volta nati devono vivere, e così fanno casa nella testa. Poi fanno comunità e sportivamente si sfrattano a vicenda. Il naso c'entra poco solo all'apparenza: di colpo qualcosa può assomigliare ad una pizza margherita o al gorgogliare di un caffè che non s'è bevuto.

E poi ci sono i profumi terziari, dovuti all'invecchiamento. E' ciò che resta dopo la doccia, e dopo un gran pasto ristoratore. All'esame olfattivo, il profumo di una corsa è più o meno intenso, complesso e di qualità. Proprio come un vino.

Poi c'è la poesia. Quella che creano la fantasia ed il bisogno di aromatizzare il nostro tempo. Il resto può essere più o meno vinoso, floreale o fruttato. Perché il resto (del tempo) risente di ciò che nasce dal nulla mentre si corre, e rimane nel tutto inesprimibile dell'inconscio.


Oggi l'allenamento è stato bello speziato, a volte legnoso, a volte tostato. Anche questo, ma non solo, la bellezza di 18 km di sterrato e oltre 600 metri di dislivello positivo.

Con Gabriele, all'attacco del Musinè

19 gennaio 2014

L'ombra

Nel tempo dell'allenamento (che salta per il maltempo) provo ad osservare l'ombra; non quella che con il sole mi può superare, ma quella che senza neppure la luna inchioda le tracce del nostro agire.  Penso a Jung: è lui che ha introdotto nella psicologia analitica il concetto fondamentale di “ombra“. 

L'inconscio contiene ricordi che sono andati perduti, traumi rimossi, percezioni non abbastanza intense da raggiungere la coscienza, contenuti non ancora maturi per la coscienza. L'inconscio corrisponde alla figura, variamente presente nei sogni, dell’ombra. 

Jung intende per ombra "il lato negativo della personalità, la somma di caratteristiche nascoste, sfavorevoli, di funzioni sviluppatesi in maniera incompleta". Aspetti primitivi e disprezzabili, inaccettabili per l’Io; e quanto più essi vengono scacciati dalla coscienza tanto più sarà pericoloso. 

Quanto più l’uomo non accetta di portare con sé il proprio passato, ossia “l’uomo primitivo e inferiore con tutte le sue bramosie e le sue emozioni”, tanto più sarà pericoloso.

Ognuno di noi è seguito da un’ombra, e meno questa è incorporata nella vita conscia dell’individuo, tanto più è nera e densa. Se un’inferiorità è conscia si ha sempre la possibilità di correggerla, ma se è rimossa e isolata dalla coscienza, essa non viene corretta. Anzi, in un momento di disattenzione potrà erompere improvvisamente”.

È questo un concetto fondamentale nella teorizzazione di Jung: non possiamo sfuggire ai nostri errori, al nostro lato oscuro, alla nostra inferiorità. Quanto più evitiamo di rimuovere l’uomo inferiore che abita in noi, tanto più gli impediremo di ribellarsi e di farci del male. Affrontiamolo, non lasciamo che diventi un persecutore.

Riconosciamo l'ombra, diamole voce. Non proiettiamola sugli altri per evitare l’incontro doloroso col nostro alter ego oscuro, il nostro doppio. L’ombra è la notte della coscienza, ma può diventare alba e nutrimento per la coscienza stessa. 


L’"individuazione" inizia proprio “quando si riesce a prendere coscienza dell’ombra”. 

Se riuscissimo ad assimilare la parte oscura che appartiene ad ognuno di noi, potremmo liberare l'energia che essa nasconde, e renderla disponibile all’Io.

Alziamo lo sguardo alle stelle, e scrutiamo l'infinito che si apre dentro noi. 



5 gennaio 2014

Walter Mitty

"Vedere il mondo, cose pericolose da raggiungere, trovarsi l’un l’altro, e sentirsi..." (slogan Life)

"È un Walter Mitty" è un neologismo popolare che si riferisce a chi passa più tempo sognando a occhi aperti piuttosto che a vivere la vita reale.

Il film si ispira a The secret life of Walter Mitty di James Thurber, un classico americano del 1939, una pietra miliare della narrativa a stelle e strisce. Stiller però, basandosi sull'adattamento scritto da Steve Conrad, lo sceneggiatore de La ricerca della felicità, aggiorna il racconto ai tempi moderni, descrivendo un uomo e la sua iperattiva immaginazione che lo porterà alla riscoperta della vita.

"Quello che mi piace di questa storia è che non può essere classificata", dice Stiller a proposito del suo film. "C'è la commedia, c'è il dramma, è una storia di avventura, è reale ed è fantasticamente iper-reale. Ma al centro di tutto questo c'è un personaggio nel quale, io credo, tutti possano ritrovarsi, qualcuno che sembra stia semplicemente passando attraverso la vita moderna e che in realtà ne sta vivendo una completamente diversa nella sua testa. Per me, lui incarna tutte quelle cose che immaginiamo su noi stessi e il mondo, ma che non diciamo mai".
Il Mitty di Stiller è un uomo mite che ha bisogno di trasformare nella sua testa i propri fallimenti quotidiani in qualcosa di molto più sorprendente. Ma nel suo regno privato di fantasticherie è un eroe. Il regista attore spiega: "Steve (lo sceneggiatore) mi ha detto: 'Dentro il petto di ogni uomo americano batte il cuore di un eroe' e volevo che il film avesse quel tipo di rispetto per tutte le cose che le persone normali devono attraversare ed affrontare, sia che si tratti di un ragazzo a cui nessuno presta attenzione o del presidente degli Stati Uniti. Il viaggio di Walter celebra il potenziale dentro ognuno di noi".
Il Mitty di Stiller, come molti di noi, si sente assediato da un mondo sempre più spersonalizzato ed elettronico che sta cambiando rapidamente ogni cosa, così che il suo stile di vita sta diventando obsoleto. È un uomo che è stato dimenticato, proprio come Life, l'ultima rivista di cronaca visiva della cultura americana che è stata trasformata – da apprezzato e riconosciuto strumento di informazione – in un sito web.
Per Mitty tutto cambia proprio in seguito alla sua ricerca dei negativi perduti di un famoso fotografo di Life, Sean O'Connell, un personaggio sfuggente che è diventato una sorta di rock star del mondo della fotografia, noto per il suo impegno incessante nel catturare una storia a qualunque costo. Lo interpreta niente di meno che Sean Penn: è lui l'iconica e la misteriosa figura che trascina Walter Mitty fuori, nel mondo reale.
"I sogni segreti di Walter Mitty" invitano a seguire l'ottica di Life, fermandosi ad osservare, e riempendosi profondamente di quei momenti speciali che sono "la quint'essenza" di una vita.
Ho indovinato il finale, l'ultima copertina di Life, e questo mi ha reso stupidamente orgoglioso.


4 gennaio 2014

Lasciare il segno



Pannello di controllo delle intenzioni

Ci sto provando...

L'ho sentito dire da poco...

Sono l'ombra di qualcun altro?

Sognate le caramelle al pistacchio.

Bradisismo devastante...

Tenendo i piedi per terra.

Una risata vi seppellirà...

Esatto, la realtà virtuale...

Compagni ed ex-colleghi...

Non c'è niente da ridere.




31 dicembre 2013

Buon 2014


Da tempo ho messo la testa a posto, ma non ricordo dove.
(Anonimo)

(mariano)


Fino all'anno scorso avevo un solo difetto: ero presuntuoso.
(Woody Allen)
(dada)


Il tempo che ti piace buttare non è buttato.
(John Lennon)


(dada)


Mi domando se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua.
(Antoine de Saint Exupéry)

(sara)

Mi domando se le stelle sono tatuate anche sull'anima.
(marianorun)


25 dicembre 2013

Natale 2013



*******************************************************************************

********************************************************************************

******************************************************************************

*********************************************************************************



******************************************************************************







6 dicembre 2013

Invictus

“Non importa quanto sia stretta la porta, quanto piena di castighi la vita. Io sono padrone del mio destino, io sono il capitano della mia anima”  

William Ernest Henley, dalla poesia Invictus

Nella cella di Robben Island, così piccola che per percorrerla bastavano tre passi, Nelson Mandela leggeva ogni giorno una poesia intitolata "Invictus" di William Ernest Henley. Leggeva la poesia e ne prendeva l'energia, per 26 lunghissimi anni. 

Mandela apparteneva alla famiglia reale dei Thembu, di etnia xhosa, la seconda popolazione di colore dopo i nove milioni di zulu, in una fertile valle del Capo Orientale, un villaggio di candide capanne. 

La sua biografia è proprio da leggere. E' stato il padre, ed ora sarà il simbolo, della lotta contro l'apartheid.

Voglio sostenere anch'io che la sua forza, almeno una parte di essa, sia da attribuire a questa grande poesia, dal titolo latino "Invictus" che significa "invittto", cioè "mai sconfitto".

Fu composta nel 1875 e pubblicata per la prima volta nel 1888 nel Book of Verses ("Libro di Versi") di Henley, dov'era la quarta di una serie di poesie intitolate Life and Death (Echoes) ("Vita e Morte (Echi)").


Per la cronaca, all'età di 12 anni Henley rimase vittima di una grave forma di tubercolosi ossea, il morbo di Pott. Nonostante ciò, riuscì a continuare i suoi studi e a tentare una carriera giornalistica a Londra. Il suo lavoro, però, fu interrotto continuamente dalla malattia, che all'età di 25 anni lo costrinse all'amputazione di una gamba per sopravvivere. Henley non si scoraggiò e continuò a vivere per circa 30 anni con una protesi artificiale, fino all'età di 53 anni. 


Henley era amico di Stevenson, che si ispirò a lui per il personaggio di Long John Silver ne L'isola del tesoro.


La poesia Invictus fu scritta proprio sul letto di un ospedale.



Invictus                                                                                         


TestoTraduzione
Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance

I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears

Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.

It matters not how strait the gate,

How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.
Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo da un polo all'altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per la mia anima invincibile.

Nella feroce morsa delle circostanze

Non ho arretrato né gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma non chino.

Oltre questo luogo d'ira e lacrime

Incombe il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.

Non importa quanto stretto sia il passaggio,

Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

25 novembre 2013

Questione di stile

Nel mio disordinato mondo, ho appena ritrovato qualcuno che ama fare ordine in luoghi umanamente disordinati...

Richard Davidson, psicologo e psichiatra alla University of Wisconsin, autore del libro “La vita emotiva del cervello”, ha esplorato a modo suo il versante affettivo delle neuroscienze.

Definendo le risposte alle diverse esperienze della vita come "stili emozionali", Davidson ha raccolto a sé le seguenti definizioni per ciascuno dei sei stili emergenti...

Il primo stile è battezzato «la resilienza», la lentezza o la rapidità con cui ci riprendiamo dalle avversità. In campo sportivo è ben noto ai motivatori di ultramaratone.

Poi c'è «la prospettiva», la capacità di conservare le proprie emozioni nel tempo. Fortunato chi riesce a conservare emozioni positive.

Un altro stile è «l’intuito sociale», la capacità di cogliere quegli indizi non verbali che permettono di capire intenzioni e stati d’animo degli altri. Chi ha questo intuito riesce ad attivare una specifica parte della corteccia visiva e l’amigdala. 

Quindi «l’autoconsapevolezza», la capacità di leggersi dentro. La capacità di percepire il proprio battito cardiaco è alla base dell'empatia. 

C'è poi «la sensibilità al contesto», il riconoscere un certo comportamento appropriato in una situazione e non in altra. Entra in gioco l'intuito che appare con la risonanza magnetica esplorando la zona dell’ippocampo. 

Infine c’è «l’attenzione», la capacità di restare concentrati. E' un'abilità cognitiva con un versante emozionale. Infatti ciascuno ha una soglia di distraibilità a seconda del contenuto emotivo dello stimolo che arriva. 

Io mi sono distratto. 

Troppo ordine mi sembra del tutto inutile. Qualche macchia qua e là, qualche linea di fuga annerita o qualche candela consumata può ancora fare l'emozione, lo stile, la grandezza interiore...


17 novembre 2013

Turin Marathon 2013

In questi casi l'importante è partecipare. E poi arrivare al traguardo. E infine essere soddisfatti...

Se poi si decidesse di far finta di nulla, evitare di parlarne troppo e lasciarsi abbracciare solo dalla propria medaglia... sarebbe una grande vittoria...

Io, comunque, corro più veloce di lui..
P.S.: Pettorale 2311. Un invito matematico: 2^ maratona terminata in 3 ore e 11 minuti! 



15 novembre 2013

Dada's marathon


La mia gattona teme la maratona. Le interessano i lunghi sogni e le gustose crocchette; il resto è solo faticosa e inutile follia... 

Più la osservo e più preferisco un muffin alle mele o un cannolo siciliano o un bicchierino di pistacchino a qualunque maratoniano pensierino. E' meravigliosamente umano ragionare come un felino...


Questo pettorale è un po' bestiale

Meglio far finta di nulla...
E filarmela come sempre...



             Tanto corro più veloce...



Quando il sole illumina la mia specie...
         

11 novembre 2013

San Martino

La nebbia a gl'irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.

***


La fischietto, la canticchio, la ripeto. Come i giri del piccolo parco, inquieto. Come un bambino che recita la sua preghiera, in quest'estate di San Martinomentre mi alleno alla maratona di novembre, poco, pochino...

Carducci la scrisse esattamente 130 anni fa, nel 1883. Non so se proprio il giorno 11 novembre, ma voglio immaginare sia stato così. Aveva, allora, l'età che io ho adesso, ma la sua lunga barba io non l'ho mai avuta... 

La poesia adotta la metrica dell'odicina anacreontica. Semplice: odicina è diminutivo di ode; anacreontica è specificativo di stile, quello del poeta greco antico Anacreonte, sentimentale leggero e superficiale...

Strofe da scuole elementari. Da mandare a memoria come lodi naturali. Da masticare come pistacchi salati. Da gustare come dolcetti al cioccolato. Strofe a forma di pantofole a buon prezzo, che fanno tanto casa...  

Chiudo gli occhi e corro immaginando la chioma di Giosuè intenta ad ondeggiare per le vie del suo borgo toscano in quel di San Martino, il giorno in cui terminavano i lavori nei campi e iniziavano le estrazioni dei vini dai tini inebrianti...

Mentre corro, il paesaggio è bianco e nero. Proprio come nella poesia. Ma verso la fine del parco, là dove il tramonto non è ancora passato, sopra le capigliature sfibrate dei platani e le mani fogliose degli aceri, intravvedo il rossastro del cielo che invola i gabbiani più scuri, e infine li rende meno sicuri d'esser vivi. Si fermano per aria in ampi stormi, fitti come la nebbia che sento arrivare dal freddo...

Il profumo è senz'altro quello di nebbia che offusca la mente. E' la nebbia che mi farà correre la maratona, ignaro d'ogni tempesta, alla ricerca del maestrale. Ancora esploratore...

Non la pioggia autunnale, non il ribollir dei tini. Girerò più sui ceppi accesi, esaltando il tempo di esuli pensieri...


1 novembre 2013

Il Sahara

Questa mattina ho corso insieme alla sete; non solo, ero in compagnia. Oltre alle magliette e alle nostre scarpette, il pensiero di una vita oltre la fatica, oltre la negazione di un destino di povertà e umiliazione correva insieme a noi. Oltre l'uomo ed il caso. La fuga.

Ho pensato alla forza della disperazione di chi attraversa il deserto, prima di attraversare il mare, prima di attraversare l'uomo che non lo attende. 


Posso solo immaginare cosa sia. E quando percepisco quella forza, piango. Esce dagli occhi del povero che sorride dietro il finestrino. E mentre lo accontento con una moneta, quella forza mi trafigge. Mi trascende, è troppo importante. La nascondo, mi ritraggo e piango...


Come nel libro di Giobbe alla domanda: da dove vieni, loro possono rispondere «dall'aver percorso la terra...» 



Poveri migranti. Scrive Domenico Quirico:
Non la morte per acqua, questa volta. L'altro mare, il deserto, l'ampio spazio di sabbia e di pietre, li ha inghiottiti, nell'affermazione visibile della sua immensità. Il Mediterraneo è solo l'ultima tappa di un viaggio che dura settimane, qualche volte anni. Da scavalcare, c'è il Sahara e l’avidità di mille mercanti di uomini. 
E' rude l’orizzonte tra Agadez e il confine del Niger dove decine di emigranti, traditi dai camion su cui viaggiavano, schiacciati come bestiame, come merce, sono morti. Il deserto, monotono come il mare, è mutevole come lui. Prima le sabbie piatte su cui i camion affondavano le ruote, poi le contrade di pietre che tolgono il respiro ai motori. Infine l’opprimente caos dei graniti, le montagne dell’Algeria, un'altra tappa del lungo viaggio.
Enormi camion da miniera che servono anche per scavare l’uranio, la ricchezza del deserto, aspettano in strada «i candidati all'emigrazione». Le donne e i bambini chiusi in cortili fetidi, sfamati con brodaglie nauseabonde. I "passeur" fanno mazzo, gai, sguaiati, si scambiano i soldi e le informazioni. Sono Tuareg che conoscono bene le piste e i buoni affari.
Alla frontiera della Libia e dell’Algeria ci sono altri che aspettano, anche loro hanno diritto alla loro tangente, se i migranti non muoiono prima. Molti passeur prendono il denaro e poi percorsi alcuni chilometri sulle piste di sabbia, quando ogni centro abitato è lontano, ordinano di scendere. «C’è un altro mezzo che vi attende dietro quella duna, qualche centinaio di metri a piedi, su coraggio! E riprenderete il viaggio più comodi...». Ma dietro la duna non c’è niente.
Non hanno identità, passaporto, storia. Sono niente. In fondo, quelli che non amiamo non esistono.


Questi poveri Ulisse a cui la sofferenza ha insegnato una pazienza infinita camminano; camminano nell'immensità delle sabbie aride, seguendo quelle vaghe tracce che lasciano il passaggio dei camion, delle bestie, degli uomini. Gli orizzonti tremulano per la calura. Anche loro conoscono i deserti, Vengono dall'Eritrea dalla Somalia dall'Etiopia dal Sudan, la fatica non li spaventa. Sperano nell'ombra di una nuvola errante nell'infinito del cielo, che erra sull'infinito della sabbia. Ma questa passa e se ne va. Piccole ombre rinfrescano le pietre, e vecchie ossa bianche.

Si ammucchiano così, laggiù, sulle montagne morte, portando i loro veli di freschezza e di mistero, là dove non c’è nulla. La sabbia li affoga in un cielo sempre più basso e cupo, mentre il sole si offusca. L’orribile epilogo, la fine da bestia inseguita. Lenta. Non misericordiosa e brutale come quella del mare. Una fine in agonia...

                         

29 ottobre 2013

La compagnia della corsa

Domenica 27 ottobre 2013 

Ritrovo al Parco Dalla Chiesa di Collegno
(Carmelo accovacciato, Andrea, Vito, Gabriele, Gianni, Ennio, Roberto, Marcello e Raffaele)


Abbracci e sorrisi prima della gara sociale
(Carmelo, Vito, Gabriele, Gianni, Marcello, io ed Ennio)


Foto ricordo dell'Atletica La Certosa (quelli che c'erano)

E tutti gli altri?

25 ottobre 2013

La mia ignoranza

“Ho sempre venduto la mia ignoranza” (Richard Saul Wurman) 

Chi non ha mai venduto la propria ignoranza scagli la prima pietra. Io certamente non mi sottraggo, anzi. Quasi quasi mi avvicino all'illuminato, diffuso pensiero... 

Ci sono tante persone che vendono le proprie competenze. Io ho sempre venduto la mia ignoranza”. Si presenta così, Richard Saul Wurman, il fondatore delle celebri conferenze Ted, che uniscono luminari di varie discipline all’insegna del motto “ideas worth spreading”, idee che vale la pena diffondere, di passaggio a Milano per incontrare giornalisti e pubblico nell’ambito della manifestazione Frontiers of Interaction. 
A 78 anni, l’uomo che Fortune in un memorabile articolo definì, un “edonista dell’intelletto” non ha perso la voglia di girare il mondo e guardare da punti di vista inediti ciò che gli altri danno per scontato. “Mentiamo spesso a noi stessi – continua Wurman – fingendo di capire quello che non capiamo e di interessarci a cose che non ci interessano. Prendiamo la crisi economica, di cui si è detto che è costata trilioni di dollari: c’è qualcuno che riesce davvero a capire con l’intelletto quanto sia un trilione? No. Perciò la questione oggi, non è tanto quella di Big Data, quanto di Big Understanding, trovare un linguaggio attraverso cui rendere comprensibili tutti i dati che abbiamo”.

Quasi il manifesto di una vita, per un ex architetto il cui primo grande successo professionale fu, negli anni ’80 del secolo scorso, la serie di guide di viaggio Access, in cui le informazioni turistiche erano organizzate in maniera tale da agevolare, attraverso un nuovo sistema di mappature per aree limitrofe, colori identificativi e simboli grafici di vario tipo il più possibile la consultazione da parte del lettore.
Wurman lancerà l’anno prossimo un nuovo ciclo di conferenze, intitolato “555 ” e reclamizzato come “davvero globale” perché condotto girando in tour per il pianeta.
Se mi avessero chiesto da giovane quello che volevo dalla vita – afferma  è vivere una vita interessante, non per forza bella, ma interessante”. Missione compiuta.

Chi non ha mai comprato l'altrui ignoranza scagli la prima pietra. Io certamente non mi sottraggo, anzi. Quasi quasi mi allontano all'oscuro, illuminato dal pensiero...




14 ottobre 2013

Minuscole metafisiche

Come scriveva Tolstoj e ora canta Fabri Fibra, "ha ragione chi è felice". La felicità dà diritto di cittadinanza alla ragione, la ospita e la ripaga con il sentimento, la partecipazione, la commozione, la necessità di un'appartenenza nuova. 

Ha ragione chi è felice perché ha torto chi felice non è. L'appartenenza politica, la classe sociale, la religione statale, la carriera aziendale, la famiglia tradizionale... sono luoghi non più felici. Singolarità del passato. 

In questa orizzontalità di vedute, gli artisti si sono trasformati in "maestri", i cantanti in "guru", gli attori in "pensatori"... per le nuove generazioni. E questo sulla base di un criterio che è stato battezzato dai sociologi: "autorevolezza sentimentale": qualcosa che guida l'emozione personale. Ti credo perché mi commuovi; ti credo perché mi trasformi, immediatamente, in una persona più felice.

Si è accorciata l'antica filiera, quel cammino "dio-sciamano-credente" dei tempi pre-globali, pre-internautici. Quando Bob Marley cantava il rastafanesimo e i suoi fan si facevano crescere i dreadlocks e si facevano le canne, non era lui che adoravano. Lui era il tramite della religione proclamata dal negus di Etiopia, a sua volta incarnazione di Jah, il dio supremo.

Oggi i sociologi dicono più o meno che "la figura dell'artista-guru ha creato l'illusione che la divulgazione equivalga al contenuto e che poche regole seguite alla lettera siano il viatico per la felicità e il benessere, e magari pure l'lluminazione". 

Una parola, una nota, un'espressione, e si attraversa il confine. Dall'altra parte, dalla parte dell'illuminazione, c'è l'illimitato, conosciuto il quale non c'è più niente da temere. E' una sensazione che stravolge e che potenzia. La nuova conoscenza. 

I sociologi insistono: "la conoscenza non è un dono, è l'indicazione per un cammino, lungo e complicato... In un tempo velocissimo, nessuno può permettersi troppa speculazione: serve il risultato. Semplicità, velocità, brevità. E tatuaggi, slogan sulle magliette e tweet sono libri sapienziali di tali minuscole metafisiche."

Forse la conoscenza può essere un dono, come la felicità, ma deve essere questa: