25 novembre 2013

Questione di stile

Nel mio disordinato mondo, ho appena ritrovato qualcuno che ama fare ordine in luoghi umanamente disordinati...

Richard Davidson, psicologo e psichiatra alla University of Wisconsin, autore del libro “La vita emotiva del cervello”, ha esplorato a modo suo il versante affettivo delle neuroscienze.

Definendo le risposte alle diverse esperienze della vita come "stili emozionali", Davidson ha raccolto a sé le seguenti definizioni per ciascuno dei sei stili emergenti...

Il primo stile è battezzato «la resilienza», la lentezza o la rapidità con cui ci riprendiamo dalle avversità. In campo sportivo è ben noto ai motivatori di ultramaratone.

Poi c'è «la prospettiva», la capacità di conservare le proprie emozioni nel tempo. Fortunato chi riesce a conservare emozioni positive.

Un altro stile è «l’intuito sociale», la capacità di cogliere quegli indizi non verbali che permettono di capire intenzioni e stati d’animo degli altri. Chi ha questo intuito riesce ad attivare una specifica parte della corteccia visiva e l’amigdala. 

Quindi «l’autoconsapevolezza», la capacità di leggersi dentro. La capacità di percepire il proprio battito cardiaco è alla base dell'empatia. 

C'è poi «la sensibilità al contesto», il riconoscere un certo comportamento appropriato in una situazione e non in altra. Entra in gioco l'intuito che appare con la risonanza magnetica esplorando la zona dell’ippocampo. 

Infine c’è «l’attenzione», la capacità di restare concentrati. E' un'abilità cognitiva con un versante emozionale. Infatti ciascuno ha una soglia di distraibilità a seconda del contenuto emotivo dello stimolo che arriva. 

Io mi sono distratto. 

Troppo ordine mi sembra del tutto inutile. Qualche macchia qua e là, qualche linea di fuga annerita o qualche candela consumata può ancora fare l'emozione, lo stile, la grandezza interiore...


17 novembre 2013

Turin Marathon 2013

In questi casi l'importante è partecipare. E poi arrivare al traguardo. E infine essere soddisfatti...

Se poi si decidesse di far finta di nulla, evitare di parlarne troppo e lasciarsi abbracciare solo dalla propria medaglia... sarebbe una grande vittoria...

Io, comunque, corro più veloce di lui..
P.S.: Pettorale 2311. Un invito matematico: 2^ maratona terminata in 3 ore e 11 minuti! 



15 novembre 2013

Dada's marathon


La mia gattona teme la maratona. Le interessano i lunghi sogni e le gustose crocchette; il resto è solo faticosa e inutile follia... 

Più la osservo e più preferisco un muffin alle mele o un cannolo siciliano o un bicchierino di pistacchino a qualunque maratoniano pensierino. E' meravigliosamente umano ragionare come un felino...


Questo pettorale è un po' bestiale

Meglio far finta di nulla...
E filarmela come sempre...



             Tanto corro più veloce...



Quando il sole illumina la mia specie...
         

11 novembre 2013

San Martino

La nebbia a gl'irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.

***


La fischietto, la canticchio, la ripeto. Come i giri del piccolo parco, inquieto. Come un bambino che recita la sua preghiera, in quest'estate di San Martinomentre mi alleno alla maratona di novembre, poco, pochino...

Carducci la scrisse esattamente 130 anni fa, nel 1883. Non so se proprio il giorno 11 novembre, ma voglio immaginare sia stato così. Aveva, allora, l'età che io ho adesso, ma la sua lunga barba io non l'ho mai avuta... 

La poesia adotta la metrica dell'odicina anacreontica. Semplice: odicina è diminutivo di ode; anacreontica è specificativo di stile, quello del poeta greco antico Anacreonte, sentimentale leggero e superficiale...

Strofe da scuole elementari. Da mandare a memoria come lodi naturali. Da masticare come pistacchi salati. Da gustare come dolcetti al cioccolato. Strofe a forma di pantofole a buon prezzo, che fanno tanto casa...  

Chiudo gli occhi e corro immaginando la chioma di Giosuè intenta ad ondeggiare per le vie del suo borgo toscano in quel di San Martino, il giorno in cui terminavano i lavori nei campi e iniziavano le estrazioni dei vini dai tini inebrianti...

Mentre corro, il paesaggio è bianco e nero. Proprio come nella poesia. Ma verso la fine del parco, là dove il tramonto non è ancora passato, sopra le capigliature sfibrate dei platani e le mani fogliose degli aceri, intravvedo il rossastro del cielo che invola i gabbiani più scuri, e infine li rende meno sicuri d'esser vivi. Si fermano per aria in ampi stormi, fitti come la nebbia che sento arrivare dal freddo...

Il profumo è senz'altro quello di nebbia che offusca la mente. E' la nebbia che mi farà correre la maratona, ignaro d'ogni tempesta, alla ricerca del maestrale. Ancora esploratore...

Non la pioggia autunnale, non il ribollir dei tini. Girerò più sui ceppi accesi, esaltando il tempo di esuli pensieri...


1 novembre 2013

Il Sahara

Questa mattina ho corso insieme alla sete; non solo, ero in compagnia. Oltre alle magliette e alle nostre scarpette, il pensiero di una vita oltre la fatica, oltre la negazione di un destino di povertà e umiliazione correva insieme a noi. Oltre l'uomo ed il caso. La fuga.

Ho pensato alla forza della disperazione di chi attraversa il deserto, prima di attraversare il mare, prima di attraversare l'uomo che non lo attende. 


Posso solo immaginare cosa sia. E quando percepisco quella forza, piango. Esce dagli occhi del povero che sorride dietro il finestrino. E mentre lo accontento con una moneta, quella forza mi trafigge. Mi trascende, è troppo importante. La nascondo, mi ritraggo e piango...


Come nel libro di Giobbe alla domanda: da dove vieni, loro possono rispondere «dall'aver percorso la terra...» 



Poveri migranti. Scrive Domenico Quirico:
Non la morte per acqua, questa volta. L'altro mare, il deserto, l'ampio spazio di sabbia e di pietre, li ha inghiottiti, nell'affermazione visibile della sua immensità. Il Mediterraneo è solo l'ultima tappa di un viaggio che dura settimane, qualche volte anni. Da scavalcare, c'è il Sahara e l’avidità di mille mercanti di uomini. 
E' rude l’orizzonte tra Agadez e il confine del Niger dove decine di emigranti, traditi dai camion su cui viaggiavano, schiacciati come bestiame, come merce, sono morti. Il deserto, monotono come il mare, è mutevole come lui. Prima le sabbie piatte su cui i camion affondavano le ruote, poi le contrade di pietre che tolgono il respiro ai motori. Infine l’opprimente caos dei graniti, le montagne dell’Algeria, un'altra tappa del lungo viaggio.
Enormi camion da miniera che servono anche per scavare l’uranio, la ricchezza del deserto, aspettano in strada «i candidati all'emigrazione». Le donne e i bambini chiusi in cortili fetidi, sfamati con brodaglie nauseabonde. I "passeur" fanno mazzo, gai, sguaiati, si scambiano i soldi e le informazioni. Sono Tuareg che conoscono bene le piste e i buoni affari.
Alla frontiera della Libia e dell’Algeria ci sono altri che aspettano, anche loro hanno diritto alla loro tangente, se i migranti non muoiono prima. Molti passeur prendono il denaro e poi percorsi alcuni chilometri sulle piste di sabbia, quando ogni centro abitato è lontano, ordinano di scendere. «C’è un altro mezzo che vi attende dietro quella duna, qualche centinaio di metri a piedi, su coraggio! E riprenderete il viaggio più comodi...». Ma dietro la duna non c’è niente.
Non hanno identità, passaporto, storia. Sono niente. In fondo, quelli che non amiamo non esistono.


Questi poveri Ulisse a cui la sofferenza ha insegnato una pazienza infinita camminano; camminano nell'immensità delle sabbie aride, seguendo quelle vaghe tracce che lasciano il passaggio dei camion, delle bestie, degli uomini. Gli orizzonti tremulano per la calura. Anche loro conoscono i deserti, Vengono dall'Eritrea dalla Somalia dall'Etiopia dal Sudan, la fatica non li spaventa. Sperano nell'ombra di una nuvola errante nell'infinito del cielo, che erra sull'infinito della sabbia. Ma questa passa e se ne va. Piccole ombre rinfrescano le pietre, e vecchie ossa bianche.

Si ammucchiano così, laggiù, sulle montagne morte, portando i loro veli di freschezza e di mistero, là dove non c’è nulla. La sabbia li affoga in un cielo sempre più basso e cupo, mentre il sole si offusca. L’orribile epilogo, la fine da bestia inseguita. Lenta. Non misericordiosa e brutale come quella del mare. Una fine in agonia...