1 novembre 2013

Il Sahara

Questa mattina ho corso insieme alla sete; non solo, ero in compagnia. Oltre alle magliette e alle nostre scarpette, il pensiero di una vita oltre la fatica, oltre la negazione di un destino di povertà e umiliazione correva insieme a noi. Oltre l'uomo ed il caso. La fuga.

Ho pensato alla forza della disperazione di chi attraversa il deserto, prima di attraversare il mare, prima di attraversare l'uomo che non lo attende. 


Posso solo immaginare cosa sia. E quando percepisco quella forza, piango. Esce dagli occhi del povero che sorride dietro il finestrino. E mentre lo accontento con una moneta, quella forza mi trafigge. Mi trascende, è troppo importante. La nascondo, mi ritraggo e piango...


Come nel libro di Giobbe alla domanda: da dove vieni, loro possono rispondere «dall'aver percorso la terra...» 



Poveri migranti. Scrive Domenico Quirico:
Non la morte per acqua, questa volta. L'altro mare, il deserto, l'ampio spazio di sabbia e di pietre, li ha inghiottiti, nell'affermazione visibile della sua immensità. Il Mediterraneo è solo l'ultima tappa di un viaggio che dura settimane, qualche volte anni. Da scavalcare, c'è il Sahara e l’avidità di mille mercanti di uomini. 
E' rude l’orizzonte tra Agadez e il confine del Niger dove decine di emigranti, traditi dai camion su cui viaggiavano, schiacciati come bestiame, come merce, sono morti. Il deserto, monotono come il mare, è mutevole come lui. Prima le sabbie piatte su cui i camion affondavano le ruote, poi le contrade di pietre che tolgono il respiro ai motori. Infine l’opprimente caos dei graniti, le montagne dell’Algeria, un'altra tappa del lungo viaggio.
Enormi camion da miniera che servono anche per scavare l’uranio, la ricchezza del deserto, aspettano in strada «i candidati all'emigrazione». Le donne e i bambini chiusi in cortili fetidi, sfamati con brodaglie nauseabonde. I "passeur" fanno mazzo, gai, sguaiati, si scambiano i soldi e le informazioni. Sono Tuareg che conoscono bene le piste e i buoni affari.
Alla frontiera della Libia e dell’Algeria ci sono altri che aspettano, anche loro hanno diritto alla loro tangente, se i migranti non muoiono prima. Molti passeur prendono il denaro e poi percorsi alcuni chilometri sulle piste di sabbia, quando ogni centro abitato è lontano, ordinano di scendere. «C’è un altro mezzo che vi attende dietro quella duna, qualche centinaio di metri a piedi, su coraggio! E riprenderete il viaggio più comodi...». Ma dietro la duna non c’è niente.
Non hanno identità, passaporto, storia. Sono niente. In fondo, quelli che non amiamo non esistono.


Questi poveri Ulisse a cui la sofferenza ha insegnato una pazienza infinita camminano; camminano nell'immensità delle sabbie aride, seguendo quelle vaghe tracce che lasciano il passaggio dei camion, delle bestie, degli uomini. Gli orizzonti tremulano per la calura. Anche loro conoscono i deserti, Vengono dall'Eritrea dalla Somalia dall'Etiopia dal Sudan, la fatica non li spaventa. Sperano nell'ombra di una nuvola errante nell'infinito del cielo, che erra sull'infinito della sabbia. Ma questa passa e se ne va. Piccole ombre rinfrescano le pietre, e vecchie ossa bianche.

Si ammucchiano così, laggiù, sulle montagne morte, portando i loro veli di freschezza e di mistero, là dove non c’è nulla. La sabbia li affoga in un cielo sempre più basso e cupo, mentre il sole si offusca. L’orribile epilogo, la fine da bestia inseguita. Lenta. Non misericordiosa e brutale come quella del mare. Una fine in agonia...

                         

29 ottobre 2013

La compagnia della corsa

Domenica 27 ottobre 2013 

Ritrovo al Parco Dalla Chiesa di Collegno
(Carmelo accovacciato, Andrea, Vito, Gabriele, Gianni, Ennio, Roberto, Marcello e Raffaele)


Abbracci e sorrisi prima della gara sociale
(Carmelo, Vito, Gabriele, Gianni, Marcello, io ed Ennio)


Foto ricordo dell'Atletica La Certosa (quelli che c'erano)

E tutti gli altri?

25 ottobre 2013

La mia ignoranza

“Ho sempre venduto la mia ignoranza” (Richard Saul Wurman) 

Chi non ha mai venduto la propria ignoranza scagli la prima pietra. Io certamente non mi sottraggo, anzi. Quasi quasi mi avvicino all'illuminato, diffuso pensiero... 

Ci sono tante persone che vendono le proprie competenze. Io ho sempre venduto la mia ignoranza”. Si presenta così, Richard Saul Wurman, il fondatore delle celebri conferenze Ted, che uniscono luminari di varie discipline all’insegna del motto “ideas worth spreading”, idee che vale la pena diffondere, di passaggio a Milano per incontrare giornalisti e pubblico nell’ambito della manifestazione Frontiers of Interaction. 
A 78 anni, l’uomo che Fortune in un memorabile articolo definì, un “edonista dell’intelletto” non ha perso la voglia di girare il mondo e guardare da punti di vista inediti ciò che gli altri danno per scontato. “Mentiamo spesso a noi stessi – continua Wurman – fingendo di capire quello che non capiamo e di interessarci a cose che non ci interessano. Prendiamo la crisi economica, di cui si è detto che è costata trilioni di dollari: c’è qualcuno che riesce davvero a capire con l’intelletto quanto sia un trilione? No. Perciò la questione oggi, non è tanto quella di Big Data, quanto di Big Understanding, trovare un linguaggio attraverso cui rendere comprensibili tutti i dati che abbiamo”.

Quasi il manifesto di una vita, per un ex architetto il cui primo grande successo professionale fu, negli anni ’80 del secolo scorso, la serie di guide di viaggio Access, in cui le informazioni turistiche erano organizzate in maniera tale da agevolare, attraverso un nuovo sistema di mappature per aree limitrofe, colori identificativi e simboli grafici di vario tipo il più possibile la consultazione da parte del lettore.
Wurman lancerà l’anno prossimo un nuovo ciclo di conferenze, intitolato “555 ” e reclamizzato come “davvero globale” perché condotto girando in tour per il pianeta.
Se mi avessero chiesto da giovane quello che volevo dalla vita – afferma  è vivere una vita interessante, non per forza bella, ma interessante”. Missione compiuta.

Chi non ha mai comprato l'altrui ignoranza scagli la prima pietra. Io certamente non mi sottraggo, anzi. Quasi quasi mi allontano all'oscuro, illuminato dal pensiero...




14 ottobre 2013

Minuscole metafisiche

Come scriveva Tolstoj e ora canta Fabri Fibra, "ha ragione chi è felice". La felicità dà diritto di cittadinanza alla ragione, la ospita e la ripaga con il sentimento, la partecipazione, la commozione, la necessità di un'appartenenza nuova. 

Ha ragione chi è felice perché ha torto chi felice non è. L'appartenenza politica, la classe sociale, la religione statale, la carriera aziendale, la famiglia tradizionale... sono luoghi non più felici. Singolarità del passato. 

In questa orizzontalità di vedute, gli artisti si sono trasformati in "maestri", i cantanti in "guru", gli attori in "pensatori"... per le nuove generazioni. E questo sulla base di un criterio che è stato battezzato dai sociologi: "autorevolezza sentimentale": qualcosa che guida l'emozione personale. Ti credo perché mi commuovi; ti credo perché mi trasformi, immediatamente, in una persona più felice.

Si è accorciata l'antica filiera, quel cammino "dio-sciamano-credente" dei tempi pre-globali, pre-internautici. Quando Bob Marley cantava il rastafanesimo e i suoi fan si facevano crescere i dreadlocks e si facevano le canne, non era lui che adoravano. Lui era il tramite della religione proclamata dal negus di Etiopia, a sua volta incarnazione di Jah, il dio supremo.

Oggi i sociologi dicono più o meno che "la figura dell'artista-guru ha creato l'illusione che la divulgazione equivalga al contenuto e che poche regole seguite alla lettera siano il viatico per la felicità e il benessere, e magari pure l'lluminazione". 

Una parola, una nota, un'espressione, e si attraversa il confine. Dall'altra parte, dalla parte dell'illuminazione, c'è l'illimitato, conosciuto il quale non c'è più niente da temere. E' una sensazione che stravolge e che potenzia. La nuova conoscenza. 

I sociologi insistono: "la conoscenza non è un dono, è l'indicazione per un cammino, lungo e complicato... In un tempo velocissimo, nessuno può permettersi troppa speculazione: serve il risultato. Semplicità, velocità, brevità. E tatuaggi, slogan sulle magliette e tweet sono libri sapienziali di tali minuscole metafisiche."

Forse la conoscenza può essere un dono, come la felicità, ma deve essere questa: 


12 ottobre 2013

Il confine

E poi ci sono cose che sento mie, ma non so spiegarne il perché. Cose semplici, ripetizioni, moltitudini, suoni. Come certi sacchi di fagioli che vedo al mercato. Ce ne sono di piccoli, grandi, chiari, scuri. Sfumature che sembrano liquidi, vicino ad altri semi, lenticchie, mandorle, nocciole. Si comprano insieme al loro rumore. Cesti rotondi e attraenti, sguardi della natura, strumenti di una terra matura. 

Mi fermo e inizio a pensare. Sono fagioli rampicanti. Sento nelle mani il sapore del tempo che è passato sul mio corpo lasciando per aria le stesse sfumature che ora vedo e respiro. Un passo avanti e due indietro, una foglia sospesa; sono nel quadro l'apertura, la luce nella tela.

Infilo le mani nel cesto, sono insieme a loro, e provo a fare le radici. Nessuno sa il (proprio) confine. In questo viaggio impossibile...





8 ottobre 2013

Cosa significa pensare

"Cosa significa pensare?" se lo domanda Heidegger. Per noi occidentali, pensare significa afferrare, prendere. Acquisire un pensiero per elaborarlo, piegarlo alla nostra volontà, per non lasciare le cose così come stanno. Pensare per possedere, per scoprire il segreto della natura e disporne. 

La tecnica è qualcosa di molto occidentale. L'istinto, qualcosa di molto orientale. La ricchezza materiale è qualcosa di molto occidentale, la ricchezza spirituale qualcosa di molto orientale. Le parole sono più occidentali dei silenzi, quelli che servirebbero nei disastri.

In Oriente, il pensiero non afferra le cose, ma semplicemente le conosce per connettersi ad esse e comprendersi nel tutto che ospita. In Oriente, il pensiero non è mai stato declinato nella direzione del potere. In Occidente, la conoscenza non rivela mai la sua innocenza, ma quasi sempre la sua cupidigia: il potere del tiranno genera esodi di massa; il potere finanziario genera masse di esodati.

In Occidente non lavoriamo per vivere, lavoriamo perché siamo preda di un pensiero che pensa in termini di elaborazione della natura, quella natura che al tempo di Eraclito "amava nascondersi" e che ora, aggredita dal pensiero occidentale, è diventata un deposito di risorse. La terra si coltiva, il sole e il vento si sfruttano, la montagna si frantuma, l'acqua si turbina; dalle piante alle imbarcazioni, dalla pesca alle catene utilitaristiche. Tutto converge nell'homo faber, il soggetto che è in grado di operare una trasformazione reale del pensiero in qualcosa di pratico. In fondo, non sappiamo pensare se non agitandoci.

"Così pensa l'Occidente, da Socrate a Nietzsche: in termini di volontà di potenza e quindi di aggressione e conquista. E non c'è più da stupirsi se il mondo è diventato tutto occidentale, percorso da un pensiero che conosce solo progetti e conquiste".

Eppure, ad un certo punto, Heidegger iniziò a dire che "pensare significa lasciar-essere (lassen) le cose come in se stesse sono, udirne il richiamo (heissen), disporsi all'ascolto (danken)". Un distacco dall'occidente senza mezzi termini!

Scrive ancora Heidegger: "E' venuto il momento di disabituarsi a sopravvalutare la filosofia e, di conseguenza, a pretendere troppo da essa. Nell'attuale povertà del mondo, questo è necessario: meno filosofia e più attenzione al pensiero; meno letteratura e più cura alla lettura delle parole. Il pensiero, infatti, col suo dire, questo solo fa: porta al linguaggio la parola inespressa dell'essere. Ed è per questo che il linguaggio è insieme la casa dell'essere e la dimora dell'essenza dell'uomo. Il pensiero deve scendere nella povertà della sua essenza provvisoria e raccogliere il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è il linguaggio dell'essere come le nuvole sono nuvole del cielo. Il pensiero, con il suo dire, traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nella campagna".

***

Il linguaggio di un corpo libero di correre non sente il fruscio di un pensiero che cerca di trovarne le ragioni... 

Una sola lingua, quella interiore, è assetata di essenze orientali, ma non sempre riesce ad esprimersi. E così si ripiomba in un sonno profondo ed incosciente... 


  

4 ottobre 2013

Omelia del runner

"When you've lost yourself in a minute..." canta in questa canzone, Ocean 5 a.m., il grande Jack, nel breve incipit di un grande concerto di questa estate...

E l'Inferno si è aperto, in un minuto, proprio alle 5 di mattina di ieri, di fronte all'isola dei conigli di Lampedusa. Si è perso l'uomo, si è persa l'umanità, nell'oceano dei sogni bruciati ed affogati. Nella stiva di una vecchia bagnarola, intrappolate, le urla sono riuscite a spaccare i cuori, anche quelli che non battevano più per certi diritti: la libertà di vivere, di sopravvivere e di partecipare. Non sono cose scontate, e qualcuno paga un prezzo insopportabile. Io sento quelle urla vicino...

"And you'll always burn...Ocean 5 a.m  

L’hangar della morte è un capannone alla fine della pista dell’aeroporto di Lampedusa, dove sono state deposte oltre cento anime finora recuperate insieme al rispettivo corpo. Sopra ogni sacco è spillato un numero che servirà alla polizia scientifica. In file doppie seguono il perimetro dell’hangar, dove chi entra ed esce non parla, sente solo il dolore che si è materializzato tra i tessuti ed il calore del proprio sangue.

I sudari di plastica soffocano di rabbia e di dolore. Ed io niente posso fare, neppure dimenticare. E dio pure. "Forgiven" 


24 settembre 2013

Oulx: le immagini impresse

L'importante è non fermarsi...

Al sedicesimo chilometro inizia la salita impegnativa. Il paesaggio è così bello che devo fotografarlo ancora, nonostante conosca il bosco dell'alta valle come nessun altro bosco. Sono passate più di due ore e mezza, e chilometro dopo chilometro sento la montagna entrare nei polmoni, insieme al profumo di terra e di linfa di corteccia. Qualcuno mi raggiunge. C'è il tempo di chiacchierare e questo è il massimo...

Le immagini raccontano per me.


Questo il sentiero nella prima parte di salita, sopra Beaume


Vista del Colle dell'Argentera (sulla destra del sentiero)

Vista del Monte Jafferau (sulla sinistra)
Sosta (troppo lunga) al ristoro di quota 2230 m - Serre du Quin
Verso la Caserma Grotte Seguret - Si vola!
Impennata verso il Ricovero Vin Vert - Si sale!
Quota 2400 m. Mi fermo ad ammirare l'infinito, ma un terribile crampo mi atterra 
Fotografo chi mi sorpassa, desolato. La salita mi appare un muro altissimo...
Qualche minuto dopo riprendo lentamente il controllo e le forze.
Il ricovero Vin Vert a quota 2540 m
Arrivo con flemma e mi faccio fotografare da un amico a cui passo la macchina fotografica
Riprendo il sorriso e m'illudo d'essere arrivato
La strada verso il Colletto del Vin Vert è solo in leggera salita, ma non riesco a correre.
Abbraccio la vallata e mi godo l'aria frizzante e profumata
Ultimo tratto e si arriva a quota 2700
Le bandierine del Colletto, e la cima del Vin Vert alle mie spalle. Sono passate circa 4 ore.
La strada verso il Col Basset è meravigliosa
Al Col Basset ci sono le riprese TV!
Il maestoso viale Rochers de l'Aigle. Che emozioni! Cerco il migliore assetto di corsa...

***

Dopo il ventottesimo chilometro inizia la discesa che tanto attendevo. Mi sembra di volare, ma la sensazione è troppo effimera. Raggiungo il Forte di Foens, a quota 2200 m, troppo rapidamente per la tenuta dei miei muscoli (già frollati). Mi fermo a bere e a mangiucchiare, sorrido, e non so ancora che 100 metri più sotto avrei lottato con le ganasce dei polpacci...


Non potevo più fermarmi, nè correre velocemente. Tenere duro fino alla fine. 
Venti chilometri in queste condizioni sono state una vera palestra mentale. Ho trovato le risorse interiori nella solidarietà con chi stava stringendo i denti esattamente come me...

Giù fino a Roveres e poi a Beaulard, sempre tra sentieri boschivi, a 1100 m. E poi ancora salita a Chateau Beaulard, a 1400 m. E poi giù fino all'ultimo chilometro prima di Oulx, dove una deviazione "cattiva" ci fa salire di altri 150 metri di dislivello, prima di fiondarci sul prato d'arrivo... Bestiale... 

Arrivo muscolarmente provato in 7 ore e 2 minuti. Sono 48 esimo su 100 arrivati al traguardo. In questa misura c'è un limite da superare. E questo, anche se non è logico, è ciò che intenderò fare alla prossima edizione...

Quando mi ripiglio, faccio alcune foto di altri che sopraggiungono
Trovo la cura in una successione di crostate e panini alla mortadella...
Ascolto il presidente di Find the cure...
Assisto alla premiazione...

I miei piedi prima della doccia: nonostante le spesse calze sono sporchi da paura!


23 settembre 2013

Oulx: le prime impressioni

La partenza

Oulx, 22 settembre 2013

Dopo un’oretta di autostrada arrivo nella piazza del paese di montagna. Mi colpisce il porfido perfettamente allineato che sembra proseguire dalla terra verso il cielo grigio di nuvole basse. Sono le sette di mattina e sopra le case ondeggiano imperscrutabili vapori immaginari. Scendo e mi oriento. Laggiù dovrebbe esserci il punto di accoglienza. Mi sento tranquillo, anche se un po’ spaventato, come prima di un esame. Ritiro il pettorale e il chip da infilare tra i lacci della scarpa. Passano pochi minuti, ma sembrano tanti; vivo una specie di lungometraggio di primi piani, sorrisi e suggerimenti. Poi attraverso la piazza e annuso l'aria fresca. Ci sono meno di dieci gradi.

Appena fuori, mi accorgo di una faccia nota: è Nico Valsesia che sorride e chiacchiera con altra gente. (Più tardi, alla partenza, lo saluterò chiedendogli della traversata del Salar, il "deserto di sale" in Bolivia, dove lui e Marco Gazzola sono stati protagonisti per Deejay TV - Fino alla fine del mondo (vedi qui); è molto simpatico e forte: quando gli racconto che il filmato mi ha entusiasmato mi dice che è tutto falso, è stato tutto un montaggio, e poi ride.


Nico Valsesia

Il piazzale si popola di mormorii, mentre il cielo si apre proprio in direzione del colle del Vin Vert (a duemilasettecento metri) che dovremo raggiungere tra poche ore. Mi sembra quasi impossibile. Non lo guardo più di tanto. Mi spaventa. Passo in rassegna il vestiario di chi mi sta accanto, per osservare quanto sono "sprovveduto". Quasi nessuno indossa le scarpe leggere (come me). Quasi tutti hanno uno zaino tecnico con porta borracce e spalline rinforzate, mentre il mio è del 1995 e appare un oggetto non identificabile. Per il resto sono all'altezza della situazione. Ho anche il berretto da soldato, ma soprattutto il coraggio d'affrontare l'ignoto.

L'adunata è in un prato riservato del parco. Qui c'è Marco Abbà, l'atleta e organizzatore del Trail che spiega rapidamente il tracciato, la sua asprezza, ma anche l'importanza di divertirsi, in quest'occasione che rientra nel circuito di "I run for Find The Cure", un team di volontari che ha deciso di impegnarsi attraverso lo sport nella raccolta fondi per aiuti umanitari alle popolazioni più povere e meno libere.

Mi guardo attorno e chiedo informazioni. Scopro che tutti vorrebbero sfogarsi e raccontare la loro preparazione e le loro esperienze. Siamo uguali. Tanti sono veterani. Io non lo sono ancora, ma penso che questa potrebbe essere l'occasione per imparare "dalla diretta della vita". Mi chiedo quanto sono disposto a cedere (il passo) alla fatica. Quanto sono disposto a perdere, come dice Jovanotti. 

Osservo le facce. Più di cento paia di occhi e un solo grande sguardo. Mi piace. E' lo sguardo dell'animale che ama la Natura, i sentieri e le pietre, i greti e l'acqua gelata che disseta. Le rocce attendono a breve distanza.

Il percorso del Trail è tutto qui. Nel senso che tutti sapevamo di dover fare tante migliaia di passi. Lunghi o brevissimi. E tutti avevamo memorizzato più o meno come e dove avremmo fatto i conti con i nostri limiti. Eppure ogni corsa è imprevedibile, tanto più quanto meno ci si conosce. Elementare a dirsi. E poi si cambia pelle, dopo essersi conosciuti arrendevoli o resilienti, affaticati o leggeri. Si diventa qualcun altro, dopo ogni ultra-trail.

Ciao sono Mariano. Ciao sono Mario di Oristano. Anche tu nuovo del percorso? Che posto! Poi si parte ed ha inizio la trasformazione. Per noi due, e per tutti gli altri cento. A metà della via può capitare d'incontrare la sofferenza, dolori e crampi. A noi due è capitato. E il dolore non lascia spazio ad altri pensieri. Lui lavora nel profondo. Chiede in prestito la tua anima e poi la logora, restituendola quando prometti di non evocarlo più, e di fuggire dalla sua maledetta morsa. Il crampo è doloroso e sopraggiunge quando la fatica supera la soglia che il muscolo è in grado di sopportare. L'allenamento è fondamentale, molto più della biochimica di un sale. Ma siamo ancora lontani dall'arrivo, molto lontani.
Venticinque chilometri di lotta con i muscoli delle gambe, con i polpacci, con le deformazioni della sensibilità che stravolge il paesaggio ed accende lampi di luce negli spasmi che durano meno di un minuto, e minano il sentiero di fantasmi e di paure di non poter più correre dal dolore.

L'importante è non fermarsi. Appena passa, rimettersi in piedi e saltellare. Questo è stato il mio Trail, nella seconda parte, e anche quello di Mario. Nella prima, invece, puro divertimento e meraviglioso spettacolo della Natura settembrina ad alta quota.



Mario di Oristano (e Mariano)
(segue seconda parte e foto)

21 settembre 2013

Remember

Sulla maglietta tecnica in microfibra che domattina dovrei ritirare ad Oulx, nel pacco gara, trovo una buona spremuta di valori umani che dovrei bermi questa sera, come elisir dello sportivo. Una frase, una scritta dietro la schiena; questa la sostanza da inghiottire.

La maglietta è nera, un po' bruttina, e la frase è di qualcuno già oltrepassato, che non riesco a identificare. Eccola:   "Ci sono solo tre vincitori: colui che compete con se stesso, colui che attraversa per primo la linea del traguardo e colui che termina la gara."

In pratica, il fatto stesso d'aver pensato di poter "correre" in montagna per 50 chilometri con nessuna preparazione tecnica, senza equipaggiamento moderno, senza supporter, senza tanto di tanto, mi rende un valido competitor di me stesso, e dunque un vincitore, seppur folle. 

Accorperò la mente oltre ciò che è dato vedere. Oltre il reale, l'immaginario m'attende per scendere e poi risalire tra le cantiche dantesche, e forse divertirmi ad incontrare qualche anima perduta come me, o qualche avo un po' guerriero...




P.S.: Domani "porterò" anche mio nonno Ernesto, che a 75 anni iniziava a sentire il Rocciamelone un po' faticoso, e che moriva esattamente 22 anni fa (credo proprio il 22 settembre...)

Negrita / La tua canzone: http://www.youtube.com/watch?v=aLH3hbAbT7s


19 settembre 2013

Il mantra

"May you all be happy, may you all believe" (Jack Jaselli)

Un ricercatore, ecco cos'è Giacomo, in arte Jack. Un viaggiatore alla ricerca di sè, del meglio di sè, da Bali a Bangkok, passando per l'Australia. Un musicista dell'anima, un rianimatore della filosofia, come la intendo io.


Fino all'altro ieri non sapevo chi fosse. Ora mi sembra d'averlo sempre conosciuto. La sua musica, le sue ripetizioni, sono un mantra, un "veicolo" che protegge chi si mette in movimento. Chi corre, là dove deve correre. Le ripetizioni dell'esistere. Le note, il respiro in mezzo alle parole che si sfibrano nell'uscita all'aria aperta, sono il traguardo dimenticato della sera; il colore di un cielo che stupisce, come il coraggio inaspettato che sfida la felicità... 

E come per Cristoforo Colombo, nel viaggio, la sua grandezza. 



"Ocean 5 a.m.": https://www.youtube.com/watch?v=08eK4yeHHWA

"Forgiven": https://www.youtube.com/watch?v=keAX5vn9H5o





Jack Jaselli nasce il 25 giugno 1980 a Milano e cresce viaggiando per il mondo. È un cantante, chitarrista e autore. Laureato in Filosofia, negato totalmente per gli sport di squadra, è un grande appassionato di surf e pugilato. Fin da piccolo studia diverse lingue (inglese, francese, tedesco) e impara per conto suo lo spagnolo. A 12 anni durante una lezione di musica alle scuole medie scopre di poter cantare e da lì non ha mai smesso. A 13 anni il primo incontro con il pugilato e in particolare con Romolo Calvenzi che ha rappresentato sempre una fonte d'ispirazione nella sua vita. A 14 anni scrive le sue prime canzoni e al liceo suona in molti gruppi punk per poi scoprire la musica elettronica. A 17 anni Inizia a viaggiare da solo, zaino in spalla e via. Un po' per seguire le onde (pur non essendo un surfista eccelso) un po' per suonare in giro e soprattutto per vedere e vivere. Dopo vari lavori (volontario in un centro di biologia marina su un'isola al largo di Seattle, riparatore di resistenze in Svezia e in Australia) all'università studia Filosofia, la sua passione che lo tenta tanto da portarlo a pensare di dedicarsi alla carriera accademica. Nel frattempo frequenta per un anno la Scuola Civica di Jazz, scopre il mondo della black music, del gospel (canta in vari cori) e lavora in vari studi di registrazione come vocalist, compositore, autore di testi per pubblicità e produzioni. Dopo la laurea in Filosofia, deluso da ciò che aveva visto dell'ambiente musicale e accademico decide di lavorare per un anno in radio (Play Radio, poi Virgin) come autore e speaker. Questa esperienza illuminante gli fa capire cosa "non" vuole fare. Si dedica allora completamente alla musica e scrive nuovi brani che registra insieme a Nik Taccori (il primo a credere nel progetto e a farne parte) e al contrabbassista argentino Roberto Seitz. Nasce "The House In Bali", il primo singolo, pubblicato in modo indipendente come Giacomo Jaselli Y Los Magicos: viene scelto come "uno dei 30 brani dell'estate 2007", vince un concorso sul sito Peter Harper (scultore, fratello di Ben), e guadagna l'airplay radiofonico su Radio Deejay. Inizia un'incessante attività live. Dopo "The House In Bali" cambia produzione e decide di formare la band chiamando Fabrizio Friggione alle chitarre e Enea Bardi come bassista e arrangiatore. Al Gran Gran Studio di Bardi registra un ep dal titolo "Paper Stars". Dopo aver costruito una solida credibilità live, partecipano a due edizioni del Mi Ami e inventano e propongono anche l'Headphonk live: un live in cuffia, muto per i passanti ma in full effect per chi indossa le cuffie attaccate al mixer in cui vengono convogliati tutti gli strumenti. Nel 2009 gli viene chiesto di presentarlo ad Artissima a Torino. Decide di registrare con la band un nuovo disco, totalmente autoprodotto e ancora una volta registrato al Gran Gran Studio di Enea Bardi. Nasce "IT'S GONNA BE RUDE, FUNKY, HARD...". In tutto questo continua a viaggiare e a portare la musica in ogni posto possibile armato della sua mini-chitarra da viaggio...
Dopo la vittoria al concorso che gli ha permesso di aprire i concerti dei Negramaro all’Olimpico e San Siro Jack Jaselli torna con una nuovo video e un nuovo singolo, Christopher Columbus.

17 settembre 2013

Il sale

Il maratoneta Dorando Petri




Il fumettista Guido Silvestri (in arte Silver, creatore di Lupo Alberto e di molte azioni di Sturmtruppen) 















e Luciano Ligabue...



sono nati a Correggio, in provincia di Reggio Emilia, dove la nebbia è pianura padana, che risana...

Correggio, Curèz in dialetto reggiano, Curèš in dialetto correggese...

Tutti e tre sono sempre stati dei motori. Sono partiti da "Cor", oppure da "Cur". E sono sempre stati in corsa (in curva) per la vita propria, dei lettori, e dei fan...

Il sale della terra di Ligabue mi dà l'occasione per affrontare, per confrontare, per salare e per salire (sopra) le mie paure. Alzare il culo dalla sedia...

Siamo il culo sulla sedia, il dramma, la commedia, il facile rimedio...
Siamo la farsa, la tragedia, il forte sotto assedio
Siamo la vittoria della tradizione
Siamo furbi che più furbi di così si muore

     Siamo... il sale della terra!
     Siamo... il sale della terra!

Siamo la freddezza che non ha paura
Siamo quel tappeto steso sulla spazzatura
Siamo la Montblanc con cui ti faccio fuori
Siamo la risata dentro il tunnel degli orrori

     Siamo... il sale della terra!
     Siamo... il sale della terra!

***

Alzo il culo dalla sedia, e mi iscrivo all'ultra trail (50 km) di Oulx. 
Spero di non sentire una risata dentro il tunnel degli orrori... J





12 settembre 2013

San Francesco al Campo

Le impressioni
Domenica 8 settembre, ore 10
Gara UISP - 9,6 km a San Francesco al Campo (TO)

Certo non mi aspettavo di volare. In questo territorio verde e boschivo, poi, la caccia è più o meno consentita, e dunque occorre stare attenti. Alcuni hanno provato a volare a loro rischio e pericolo in mezzo alle stradine di campagna ben sorvegliate dagli ausiliari dei carabinieri, spesso intenti a sbadigliare davanti allo stormo sgambato di podisti sempre in cerca di decollo, o di un collo di bottiglia da afferrare.

Il vicino aeroporto di Caselle è però un invito ad immaginarsi in alto nei Cieli. Una sorta di preghiera dallo spirito sportivo. Il mio vicino di corsa sembra un motore che ansima ancor prima del botto di partenza. E' un vigneto che ribolle ancor prima della vendemmia.

Il decollo, però, è un affare di portanza gravitazionale. E una curva a pochi metri dal via, in piena discesa, scatena un mezzo inferno. C'è chi ha imbardato e subito abortito il suo decollo. Chi ha dato reverse ed esteso gli spoilers. Chi è esploso in un vaffa poco igienico. Anch'io sono stato poco esemplare, alzando per bene le gambe e pensando di calpestare chi si fosse trovato a mezza via tra la terra ed il mio cavallo imbizzarrito.

In breve, è andato tutto bene, ma poteva essere qualcosa di poco francescano. Il primo chilometro è nello sterrato e sento che l'energia mi assiste. Ho appena salutato Gabriele che con me, in auto, ha cercato - per tutto il tragitto di avvicinamento a questo paesino - di trovare un cappio di motivazione a cui appendersi, invano. Mi fa cenno di andare, e io vado.

Non sento praticamente nulla, nessun rumore dall'esterno, né dall'interno. Sono solo in mezzo a tanta luce, perché il sole ha riacceso i colori. Come nella poetica del fauvismo, nella sua sconsiderata immediatezza delle scie, scorrono a destra e a sinistra dei mie paraocchi i tratti accesi e puri di verde e giallo e blu spremuti direttamente dai tubetti della Natura schiacciata dal nostro vento. 

Il secondo chilometro è spirato senza che potessi accorgermi d'esistere, e questa è la sensazione di meraviglia che adoro, nella corsa. Mi giro e sento la voce di Gabriele che mi affianca e si propone di accompagnarmi. E' solo una voce. Lui, in carne ed ossa, arriva a mollare poco dopo e mi sparisce alle spalle. Assaporo due chilometri inseguendo le gambe di chi mi sta davanti. Non mi sorpassa quasi nessuno, anzi, ogni tanto riprendo qualche runner affaticato.

I pensieri sono pochi e dinamici come in "Safe&Sound" ("sano e salvo") di Capital Cities. Il ritmo è quello. Sì, è proprio ciò che occorre per attraversare i dieci chilometri indenne. Pochi, ma solidi pensieri. Battere i piedi senza far rumore. Spingere sulle punte e sollevare le ginocchia. Questa solitudine accentra le sensazioni fino a catturare qualcosa di chi mi precede. Lo copio, gli rubo lo stile di corsa, per vedere se le risposte sono ancora mie, acquisite, oppure no. A volte sono in due che stanno facendo strada, e mi intrometto; seguo la scia con occhi socchiusi e poi parlo anch'io.

Pian piano la solitudine arriva al sesto chilometro e qui mi accorgo che il significato di oggi è proprio quello di stare solo un po' con chi mi precede, prima di superarlo. Certo, tutto si svolge in qualche centinaio di metri, in qualche minuto nell'intorno dell'andatura massimale, mia e di altri venti o trenta come me. Perchè una settantina sono irraggiungibili, davanti, e più di duecentocinquanta sono dietro, ad un passo dalle rispettive stanchezze, e sofferenze, e gioie, e ideali di vita.

Anche i miei compagni di squadra sono un po' avanti e un po' indietro. L'Atletica è spezzata in due o tre pezzi. Domenico Amorosi è la lama più affilata di tutti, e di punta arriva al traguardo in 34'45", terzo assoluto. Un vero Atleta. Seguono i top runner Giuliano (35'34") e Gianluca (37'27") e subito alle spalle il Presidente e Gianni dei "cugini che corrono". Al minuto 38'52" taglia il traguardo Raffaele, insoddisfatto ma sempre forte per il resto del gruppo. Al 40'36" finalmente raggiungo il ristoro pure io, 7° dell'Atletica e 89° assoluto (su 312 arrivati). Gabriele arranca un po' deluso della sua prestazione; gli sorrido, e ci abbracciamo prima di addentare i biscotti duri e sputacchiare il thè bollente alla ricerca di qualcosa di ghiacciato. Roberto è ancora dietro e poi Vito in una buona forma davanti a Francesco. Grande prova per il giovane acquisto Lorenzo Barale, diciassettenne che ha vinto la corsa degli Allievi e poi si è piazzato dietro Gabriele nella nostra gara!

Al sito dell'Atletica i dettagli di classifica.

Le impressioni più intense le ho lasciate lì nella grande piazza San Francesco, insieme a quelle di tanti altri. Anche quelle più povere e più umili. Quelle della fame di torta e quelle della buona scorta di entusiasmo per affrontare un ultra-trail...